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VIOLENZA E RESPONSABILITA’ di Marina Ricci

Presentazione del libro di Chiara Colombini, “Storia passionale della guerra partigiana”, Editori Laterza 2023 – Milano, 26 ottobre 2024, Franco Angeli Academy

Violenza e responsabilità

Innanzitutto, un ringraziamento a Chiara Colombini per il suo lavoro che, fin dal titolo “Storia passionale della guerra partigiana”, non poteva non stimolare l’interesse, oltre che degli storici, di chi delle passioni degli uomini si occupa, in particolare di uno sguardo psicoanalitico che abbia a cuore il rapporto del soggetto con la società e con la storia.

Colombini prende in esame, nel suo libro, l’insieme di emozioni personali, desideri, smarrimenti, paure, forti spinte ideali che hanno accompagnato il periodo che va dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945.

L’osservazione puntuale dei vissuti, delle emozioni spesso intense e travolgenti che hanno accompagnato gli accadimenti della guerra partigiana, è resa, lungo tutto il testo, molto avvincente grazie alla scelta di riportare testimonianze dirette (scambi epistolari, anche molto personali e intimi, diari, carteggi delle formazioni partigiane) sia di protagonisti della Resistenza assai noti (Vittorio Foa, Ferruccio Parri, Franco Calamandrei) sia di personaggi meno “famosi” che sono tuttavia rivelatori di militanze e scelte di straordinaria importanza.

L’impostazione scelta, consente di guardare agli avvenimenti “mentre questi accadono”, seguendo una prospettiva “dal basso” che, proprio per favorire l’immediatezza dell’esperienza, rinuncia all’ampliamento che ne può derivare dalla riflessione a posteriori.

Consente, inoltre, di ricomporre una memoria “in vivo” che, come nelle intenzioni dell’autrice, ridimensiona l’approccio idealizzato e rituale che spesso si accompagna alla descrizione della Resistenza, facilitandone una comprensione più umana e vicina.

Vi è, nel libro, una domanda di partenza:

“ Cosa accade nell’animo e nel comportamento degli esseri umani quando vivono in circostanze eccezionali, quando le loro esistenze sono investite da una rottura epocale come una guerra?

“Quali stati d’animo restano uguali a se stessi e quali emergono con prepotenza, in relazione alla situazione dell’esistenza di una guerra?” (Introduzione, p.3)

La risposta o meglio le risposte a questi interrogativi, si sviluppano nei vari capitoli analizzando gli stati d’animo in relazione agli eventi cardine della caduta del fascismo (25 luglio 1943 e l’8 settembre 1943) e proponendo, in ogni capitolo, un tema  diverso:  lo  smarrimento  di  fronte  al  mutare  degli  eventi;  i  travagli nell’organizzazione di una risposta di lotta; l’impatto con il terrore, la paura e la ricerca delle vie d’uscita da essi; la spinosa questione del rapporto con la violenza, le passioni più intime, personali, quelle della quotidianità immerse in un mondo ribaltato ed accelerato, per giungere alla prospettiva del futuro e alle speranze, tanto attese.

Cercherò di evidenziare i passaggi che maggiormente mi hanno sollecitato e che provo a commentare utilizzando dei concetti psicoanalitici.

1) Il primo primo riguarda le reazioni alla caduta del fascismo (25 luglio 1943) ed alla situazione di caos emersa all’annuncio dell’armistizio, l’8 settembre 1943.

2) Il secondo riguarda la questione della violenza

 

1) L’autrice ci mostra come quegli eventi abbiano determinato, in tempi rapidi, vissuti individuali e reazioni emotive tali da modificare, nei soggetti la percezione del rapporto con il tempo: lo stato di emergenza, di eccezionalità, hanno alterato le coordinate esistenziali di ciascuno, disassandole potentemente: la vita non scorre più in un contesto sufficientemente conosciuto che consenta un rapporto prevedibile con il tempo.

La quotidianità persiste ma in uno scorrere più precario, le esigenze del momento ad essa si sovrappongono e la prevedibilità degli eventi diviene rarefatta.

Presente, passato, futuro si sovrappongono, si intersecano, si colorano di tinte emotive diverse dal “prima” in modi diversi a seconda dei singoli e delle loro storie.

Colombini dedica il primo capitolo capitolo (Esserci finalmente!), alla questione del rapporto con il passato dei protagonisti di allora ed alle diverse posture assunte.

Qui, la percezione del passato e del futuro si differenzia, comprensibilmente, a seconda delle diverse coscienze politiche dei soggetti: per chi, fin dall’avvio del Regime, ha maturato una coscienza e un’attività antifascista, la destituzione di Mussolini e la fuga di Badoglio e del re, determinano finalmente la prospettiva di un cambiamento aperto alla speranza.

Ciò suscita reazioni di entusiasmo: (vedi la lettera alla figlia del socialista bolognese Adolfo Vacchi,un uomo di 56 anni, perseguitato per la sua opposizione al fascismo fin dal 1922. Questo l’esordio: “per me è il giorno più bello della vita, così lungamente, tormentosamente ma fiduciosamente atteso! Esultate! ….e in chiusura utilizza la dicitura introdotta nell’era fascista, correggendola in ore 15 del 26/7/1943 anno I dell’Era Nuova (per significare che a questa apparteneva il futuro) e sostituendo al “credere obbedire combattere” il “capire sapere pensare” (p. 14-15).

Ci sono poi le reazioni di coloro che, nello sfascio generale, nel crollo delle istituzioni, non intravedono più prospettive per il futuro, di coloro per i quali il tempo si ferma nel vissuto di delusione e di crollo ed è questo il caso della lettera di Salvatore Satta, affermato giurista e scrittore, che produrrà una immensa opera di procedura civile, che parla, con scoramento, di “morte della patria” (p.17).

E ancora, la posizione di chi sceglierà di schierarsi con la Repubblica Sociale, lo Stato fascista fondato da Mussolini nella seconda metà del settembre 1943, di chi fascista resterà fino alla fine, voltando le spalle al cambiamento e relegandosi in una visione del futuro come ripetizione di un passato mortifero.

E, infine, le reazioni della stragrande maggioranza della popolazione: che sono di disorientamento totale, di non saper più a chi e in cosa credere, di non sapere come muoversi, se e quali iniziative prendere.

Per questa moltitudine, l’impatto sarà, forse, ancora più difficile, complicato e, a seconda della situazione in cui si verranno a trovare nel procedere degli eventi, si tratterà di affrontare il lavoro “di fare qualcosa” cercando, in qualche modo di orientarsi e di trovare delle vie d’uscita. L’8 settembre sarà ancora più straniante, ponendo l’alternativa o di lavorare per una ridefinizione di se stessi (cosa che, per chi già era politicizzato, sarà una strada già tracciata) oppure, rimanere inermi, in balia degli eventi.

Prendo ad esempio le parole del 21enne Mario Davide, contadino della provincia torinese che, all’8 settembre si trova nei dintorni di La Spezia con un battaglione degli Alpini e che, nel suo diario, esprime il passaggio dalla gioia assoluta “…ero fuori di me dalla contentezza, così sparai una decina di colpi”, alla confusione per gli ordini contraddittori, alla rabbia repressa per essere stato disarmato dai tedeschi “avrei voluto reagire…ma alzando la testa vidi alcune mitraglie con le canne rivolte verso di me e altri miei compagni” fino a giungere alla presa di decisione “ approfittai per fare la fuga, nessuno osava muoversi, avevano tutti una fifa enorme, così mi decisi a partire da solo”. Sceglie così la via della resistenza armata (p.16-17).

Ora, assumendo uno sguardo psicoanalitico, a proposito della portata sconvolgente e disorientante degli eventi dell’8 settembre, è possibile far riferimento al concetto di “cambiamento catastrofico” rintracciabile nei lavori dello psicoanalista inglese Wilfred Bion.

Con questo termine Bion indica “una congiunzione costante di fatti la cui realizzazione può incontrarsi in campi diversi, fra i quali la mente, il gruppo, la seduta psicoanalitica e la società. I fatti ai quali si riferisce la congiunzione costante possono essere osservati quando compare un’idea nuova in qualcuna delle aree menzionate” (Grinberg, Sor, Tabak De Bianchedi, “Introduzione al pensiero di Bion” 1991,Cortina Editore,p.13).

L’idea nuova contiene, secondo Bion, una forza potenzialmente distruttiva, che sconvolge il campo nel quale si manifesta (la nuova scoperta sconvolge la struttura di una teoria preesistente, il rivoluzionario la struttura della società, l’interpretazione la struttura della personalità)

In “Memoria del futuro”, Bion sottolinea come una struttura si trasforma in un’altra attraverso momenti di disorganizzazione, dolore e frustrazione, la via della successiva evoluzione sarà in funzione di queste vicissitudini.

A fronte del nuovo contenuto si possono attivare reazioni difensive di diverso tipo, come l’esperienza del lavoro psicoanalitico individuale dimostra, che possono essere di difesa estrema, come nella negazione “non è successo nulla che andrà a modificare l’esistente” oppure l’espulsione, con la proiezione della colpa e del danno all’esterno (e allora si crea il nemico esterno da distruggere) oppure ancora di banalizzazione (al fine di consentire un’evasione dalla questione) oppure può emergere l’ assunzione interna del dato di fatto e l’affrontare il duro lavoro di contenimento dell’angoscia che il cambiamento crea, attraverso l’attivazione sostanzialmente del “capire, sapere, pensare” che Adolfo Vacchi rivendica nella sua testimonianza. Approccio questo che è presupposto essenziale per non sprofondare nella catastrofe e trovare, per quanto possibile, una via di azione.

Oltre alle risposte e alle reazione davanti al cambiamento di cui ho parlato, vorrei prendere in considerazione le parole che Vittorio Foa, in carcere fin dal 1935 a causa della sua attività clandestina nei gruppi Giustizia e Libertà, scrive ai genitori e che pongono una prospettiva assolutamente vera e realistica.

Dice di non riuscire a provare una “gioia smodata”, nonostante la sua prossima liberazione dopo 8 anni di detenzione, “ ma solo un senso di grave responsabilità”, che la situazione volge in tragedia ma che occorre farsene carico. E, a queste sue parole, si accompagna la spinta all’azione dettata dalla consapevolezza che del passato che ha portato al disastro vi è una responsabilità collettiva.

Foa, diverrà poi, organizzatore della Resistenza a Milano e a Torino (Colombini p.15).

Ed è, la sua, una consapevolezza che si accompagnerà a quella di tanti altri, ripresa in molte testimonianze, soprattutto di avanguardie politicizzate: l’idea che quel passato che ha portato a guerre, morte e devastazione, è responsabilità di ciascuno e responsabilità collettiva e da qui si deve partire per reagire con coraggio e determinazione.

Questo aver saputo guardare, allora, al tema della colpa, a me pare essere stato un punto importante, così come lo è nel corso di una psicoanalisi, nel processo di riappropriazione del rapporto con il tempo che non appare più opaco ed imprendibile perché, assumendo la non-estraneità individuale ai danni maturati nell’oggi dal passato, è possibile pensare ad un proprio agire, personale, che provi ad avere peso nel costruire un’idea di futuro.

La psicoanalisi, ci aiuta a capire e confermare questo tipo di processo perche2 il vissuto della colpa, nell’individuo, e5 basilare in un lavoro analitico.

Molto spesso, nella clinica, si incontrano questioni relative al ruolo e alla funzione esercitata, nelle storie individuali, dal Super-io: istanza della personalita5 che si costituisce per interiorizzazione dell’autorita5 genitoriale, che presiede alla coscienza morale e alla formazione di ideali e che puo5 divenire, nelle sue trasformazioni patologiche, un oggetto antivitale ed invasivo, tale da ostacolare e bloccare la vita psichica oppure essere un oggetto che rappresenta l’autorita5 paterna che struttura, protegge e consente di guardare in faccia la realta5 , per come si presenta e aiuta a operare scelte.

Si tratta, cioè, di essere capaci di passare da una visione della “propria colpa” come istanza paralizzante ed eterodiretta alla visione della “propria colpa” come stimolo all’assunzione di responsabilità

Luigi Borgomaneri, in un suo articolo centrato sul passaggio “Dall’io al noi” nel percorso resistenziale (in “Quaderni di Psicoanalisi critica”), ricorda come gli adulti, appartenenti ad avanguardie antifasciste e politicizzate abbiano avuto un ruolo centrale nella formazione etica e politica di molti giovani, nella fabbrica, giovani che erano stati privati di una presenza paterna valida e affidabile nel ventennio fascista.

Il fatto che da questo lavorio sia scaturito un movimento vincente grazie alla dedizione, al coraggio, alla capacità organizzativa dei singoli, ci fa confrontare, senza retorica, con un’esperienza umana di estrema ricchezza.

Questo aspetto e la dinamica di rapporto con il tempo (coesistenza di presente, passato e futuro) contestualizzata in condizioni storiche particolarmente drammatiche, ha molto a che fare con la dimensione temporale che caratterizza lo sviluppo di un’analisi: in cui, per paziente e analista, coesistono “l’hic et nunc” e le relative rappresentazioni dei conflitti, il legame con il passato, con il suo irrevocabile “già accaduto” e i suoi multiformi vissuti ed il futuro, come incognita e perciò stesso, luogo di timore ma anche di speranza, di salvezza.

 

2) La violenza

Nel quarto capitolo “Il costo da pagare”, Colombini esamina una questione spinosa e angosciante che ha accompagnato, costantemente, chi si è trovato a vivere nel cuore dell’esperienza partigiana, quella della violenza: della sua legittimità all’interno della lotta in atto, del diritto ad agirla e soprattutto dei modi e dei contesti nei quali poteva o no, essere applicata.

“Se decido di combattere senza che qualcuno – lo Stato, l’esercito – me lo ordini e se in questa situazione uccido, su chi ricade la responsabilità del mio gesto? Chi mi autorizza a stare nel ruolo che ho assunto?” (p.87).

Se, da un lato, è stato storicamente motivato e accettato che la violenza dei partigiani non sia stata l’azione bellica di “irregolari” ma la risposta difensiva, ineludibile, alla violenza esercitata in modo massivo e indiscriminato da nazisti e fascisti, più complicato fu il confrontarsi “in vivo” da parte dei partigiani con l’esercizio della violenza, in parte nella lotta armata, ma soprattutto nella decisione di uccidere per giustiziare (prigionieri, collaborazionisti, spie…).

Cito le testimonianze di due partigiani, utili a circoscrivere il tenore delle emozioni. La prima riguarda le considerazioni di Enrica Filippini Lera: fiera militante comunista fin dalla seconda metà degli anni trenta che, carcerata a Regina Coeli, venuta a conoscenza dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, dopo aver assistito al prelievo degli ostaggi, sente crollare la sua fiducia e il suo ottimismo “mi sentivo come caduta nel buio e in me non c’era che un senso di orrore:…non riuscivo più a riprendere i legami umani. Questo è ciò che più ho temuto: perdere il senso di umanità e la serenità di giudizio” (p.98).

La seconda riguarda le parole di Bruno Fanciullacci (coraggioso gappista fiorentino, più volte arrestato, ferocemente torturato e ucciso nel disperato tentativo di fuggire da Villa Triste) che ci mostrano il passaggio dal dolore per la violenza subita sulla propria pelle all’odio assoluto nei confronti del suo persecutore : “se non cadrà sotto i colpi della giustizia popolare, prima della nostra ormai vicina legalità, lo scoverò ovunque si porti. Non so il suo nome malgrado l’abbia a più riprese domandato, ma non scamperà ugualmente” (p.104).

Paura di perdere il proprio senso di fiducia nei valori umani e quindi “disumanizzarsi”, sentirsi invasi dall’odio, desiderare la vendetta e fantasticare di uccidere: questi i sentimenti che emergono anche in chi esercita l’azione violenta per una giusta causa.

Può essere qui utile prendere in considerazione il filone della psicoanalisi che, a partire da Freud, passando poi per la scuola inglese con Melanie Klein e, successivamente con Christofer Bollas, intende la pulsione aggressiva non come un accidente che si manifesta eccezionalmente, temporaneamente, in relazione a determinate condizioni esterne che la sollecitano ma sia costitutiva della natura umana stessa.

Ce ne parla Freud ne “Il disagio della civiltà”: “…l’uomo non è una creatura mansueta, bisognosa d’amore, capace al massimo di difendersi quando è attaccata; ma che occorre attribuire al suo corredo pulsionale anche una buona dose di aggressività. Ne segue che egli vede nel prossimo non soltanto un eventuale aiuto e oggetto sessuale, ma anche un invito a sfogare su di lui la propria aggressività, a sfruttarne la forza lavorativa senza ricompensarlo ad abusarne sessualmente senza il suo consenso, a sostituirsi a lui nel possesso dei suoi beni, ad umiliarlo, a farlo soffrire, a torturalo e a ucciderlo…. Questa crudele aggressività è di regola in attesa di una provocazione…In circostanze che le sono propizie, quando le forze psichiche contrarie che ordinariamente la inibiscono cessano di operare, essa si manifesta anche spontaneamente e rivela nell’uomo una bestia selvaggia, alla quale è estraneo il rispetto della propria specie”(Freud S. “Il disagio della civiltà, e altri saggi”, Bollati Boringhieri, 1971, p.246).

La pulsione aggressiva è, cioè, una pulsione originaria e indipendente: la pulsione di morte coesiste e lavora negli individui accanto alla pulsione di vita.

E’ solo il processo di civilizzazione che promuove, a favore dell’umanità, attraverso le leggi e la regolamentazione delle istituzioni, un contenimento, un argine alla pulsione distruttiva. Ed è un duro lavoro, quello della civilizzazione, ci ricorda Freud, cui l’uomo deve sottoporsi, rinunciando alla propria spinta ad aggredire, a sottomettere a realizzare i propri desideri onnipotenti che lo ripaga con un bene non individuale ma collettivo.

Più avanti, la psicoanalisi inglese, con Melanie Klein riprenderà questo approccio rendendolo strutturale: fin dalla nascita l’io è dominato dall’istinto di morte, che viene espulso all’esterno  ma è comunque la forza principale, accanto alle pulsioni libidiche, precarie e sempre a rischio di essere sopraffatte. Sara’ l’incontro con esperienze esterne positive che consentirà il rafforzarsi degli oggetti interni buoni e il mitigarsi di quelli cattivi, stabilendo con essi un rapporto autonomo e separato del soggetto da essi.

Seguendo questa posizione della psicoanalisi che, in sintesi, sostiene che la persona è composta di parti diverse del Sé che operano nella mente, Christopher Bollas propone una lettura delle dinamiche che portano a un buon equilibrio positivo oppure al prevalere del male, fino al male assoluto (vedi il suo lavoro “Essere un carattere”, Raffaello Cortina Editore, 1989).

Quando istinti, ricordi, esigenze, angosce che hanno la loro rappresentazione nella psiche, trovano uno spazio, interno, di elaborazione mentale allora, si istituisce quello che, con una immagine eloquente, Bollas descrive come un “ordine rappresentativo di tipo parlamentare”. Questo, nel migliore dei casi, evolve verso un ordine “democratico” dove viene salvaguardato l’uso della ragione, a fini di bene individuale e collettivo. E’ salvaguardata l’esistenza del simbolico, la parola circola liberamente e, nel confronto, produce rispetto per l’altro.

Quando invece quest’ordine è sottoposto a pressioni interne (avidità, invidia, pulsioni distruttive) o anche esterne (come un’ideologia che professi valori univoci, autoritari, insindacabili) l’ordine parlamentare può incontrare blocchi, disgregazione e determinare la proiezione all’esterno di parti del Sè lasciando la mente svuotata.

La proiezione all’esterno, sempre in determinate condizioni, può diventare un meccanismo che si riproduce su se stesso, aggravandosi, perché il vuoto mentale deve essere mantenuto per vietare l’accesso alla mente della critica e della contraddizione. Così la mente può de-umanizzarsi e giungere a determinare quella che Bollas chiama lo stato mentale fascista.

Un Sè scisso, dove si presentano da un lato un Sè formale, ideologico, tetragono che sottende un Sè vuoto insensibile, disumano, capace di portare alla tortura e all’uccisione, fino, dice Bollas, al genocidio.

A questo proposito, voglio riportare una riflessione tratta da “Un uomo, un partigiano” di Roberto Battaglia, indicato in nota nel libro di Colombini, che molto mi ha colpito per la lucidità con cui affronta il potere dell’odio, la sua pervasività ed il carico emotivo, a volte disumano, che uomini come lui hanno dovuto affrontare combattendo.

Le sue parole esprimono tutto ciò, meglio di qualunque teorizzazione, nel mentre svolge le sue riflessioni sulla ricadute della pratica della lotta armata nei partigiani: “Anche in noi esplodeva allora la gioia feroce di dare la morte e ogni imboscata sulla strada era salutata con disumana ilarità, commentandone solo quei particolari che portavano lo scherno in mezzo alla tragedia, l’abbondanza di tabacco che ci si era procurato in tal modo, la possibilità di distribuire qualche paio di scarpe di marca tedesca, ben risuolate, con la piastrina a ferro di cavallo sotto il tallone.

Il nemico stesso ci aveva educato alla morte, ci aveva consegnato, scarnito e solitario, il suo più cupo impulso. Egli era rimasto al di là, vestito da soldato, con i suoi gradi e i suoi distintivi. Scriveva assiduamente alla famiglia lontana, come potevamo accertarci catturando i suoi corrieri, conservava gelosamente nelle tasche della divisa, che frugavamo dopo la sua morte, tutt’una vita regolare di ossequio alla società, dov’era nato e cresciuto: certificati militari, promozioni, immagini o medaglie di santi, forse le stesse che gli avevano dato la madre o la fidanzata perché lo proteggessero, era rimasto anche nella guerra al riparo del dubbio, corretto e disciplinato, anche nelle rappresaglie, quando giungeva sul posto, sapendo già quante case doveva distruggere, quanti civili fucilare.

Perciò poteva uccidere con tanta facilità.

L’odio che l’aveva portato fino a quel punto giaceva in lui come sommerso da un solido strato d’indifferenza e di disprezzo: sembrava essersene liberato, dando a noi tutto il suo peso, attribuendoci quegli inumani lineamenti che erano in lui celati dalla maschera del soldato.

La nostra peggiore condanna, tanto più avvertita quanto maggiore era la responsabilità del comando: espiare anche per lui, invidiargli, senza avere il coraggio di confessarlo, quelle stesse apparenze d’uomo normale, ossia soggetto a una serie logica e continua di convenienza, che erano state distrutte in noi.

Mai più uomini come gli altri, mai più capaci di godere la purezza di un affetto o la serenità di un riposo”(“Un uomo, un partigiano”, Einaudi, 1965, p.134).

Qui Battaglia, a mio modo di vedere, ci restituisce un’immagine molto chiara sia della dinamica di chi agisce la violenza: un io scisso dove convivono, senza arrecarsi alcun disturbo, la quotidianità degli affetti e la possibilità di pianificare l’uccisione nella rappresaglia o la tortura sia la sua pervasività verso chi di essa è oggetto e che si trova a combatterla, essendo dalla parte della giustizia.

Il rischio della collusione e della contaminazione, Colombini ce lo ricorda, è elevatissimo. L’odio spinge ad agire e l’entrare nella spirale di rispondere alla proiezione con una controproiezione è una strada sempre aperta.

Fu la lucidità e la consapevolezza di donne e uomini che seppero vedere questi rischi, che seppero sostituire al “credere, obbedire, combattere” il “capire, sapere, pensare” a fornire argini, regole al proprio esercizio della violenza. A non consentire che i propri oggetti interni buoni venissero uccisi.

Filippini Lera intuisce il rischio della disumanizzazione, Fanciullacci, nel momento della massima disperazione invoca la legalità prima della vendetta personale, Battaglia, nella sua responsabilità del Comando, con tutti i dubbi di cui ci parla, in assenza di un codice penale cui fare riferimento, riesce a far appello alla propria ragione e a quella dei suoi compagni e, forte di un sentire condiviso, non di una legge scritta ma del sostegno della propria comunità, redige il decalogo di comportamento, ferreo e vincolante per tutti, nel gestire i processi, le condanne e le esecuzioni del nemico: la circolare del Corpo Volontari della Libertà, aderente al CNL, Divisione Lunense.

 

Per concludere, io credo che questo passaggio, rappresenti un lascito molto significativo dell’esperienza resistenziale, forse poco conosciuto in modo diffuso ma di importante valore, soprattutto nel mondo odierno, con le devastanti conseguenze della guerra, con il suo prodotto di odio indiscriminato e cieco alle porte.


La Società di Psicoanalisi critica promuove lo studio, la ricerca e la formazione nel campo della psicoanalisi di Freud e di coloro che dopo di lui ne hanno continuato l’opera.
Vuole valorizzare gli aspetti teorici e clinici che fanno della psicoanalisi una scienza che indaga le forze psichiche operanti nell’uomo, in quanto singolo individuo e negli uomini, nelle loro aggregazioni sociali.

“Tutti i numeri dei Quaderni di Psicoanalisi Critica sono reperibili su ordinazione nelle librerie e disponibili presso la Libreria Franco Angeli Bookshop – Viale dell’Innovazione,11 – 20126 Milano.

Chi fosse interessato a ricevere uno dei volumi tramite posta può telefonare a Mariangela Gariano 3473696724”
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