Tra radicalità e delusione: Andrea Camilleri
di Adriano Voltolin
L’eredità che ci lascia Andrea Camilleri, quella che almeno pare la principale, è il grido assordante che ci viene da tempi lontani e che i grandi intellettuali siciliani paiono trasmettersi affinché qualcuno forse un giorno lo ascolti: da Verga a Sciascia a Pirandello, da Bufalino a Tomasi di Lampedusa e a Camilleri lo strazio dei vinti fa da contrappunto a quella ingiustizia come pratica delle classi dirigenti come l’ha chiamata Emanuele Macaluso commemorando l’amico e il compagno scomparso sulle pagine del Manifesto del 18 luglio 2019. La voce che viene dalla Sicilia attraverso i suoi intellettuali ci parla di una terra sconciata dalla soperchieria e dalla speculazione e di una classe dirigente che è, come aveva scritto Luigi Russo commentando il celebre passo manzoniano del “sopire e troncare, troncare e sopire”, caratterizzata da una impotenza di politico, che gira le difficoltà, le dissimula, le maschera invece di affrontarle. E’ la piccola politica farisaica che lascia le cose al punto di prima, corrompendole e lasciandole imputridire. La classe dirigente siciliana è caratterizzata da una continuità assoluta nella sua devastante determinazione a mascherare non, in verità, la collusione, bensì l’intima compenetrazione tra politica e malaffare per la quale non si può dire che vi siano infiltrazioni della mafia nella politica, ma che esse costituiscono un solo oggetto la cui natura è predatoria, volgare e bugiarda. Salvemini aveva chiamato Giolitti il ministro della malavita per l’appoggio dato all’imbroglio come metodo di governo in Sicilia, Mario Scelba, siciliano, era ministro dell’interno quando, il primo maggio del 1947 avvenne la strage di Portella della Ginestra, strage sui cui mandanti ed esecutori non sappiamo ancora praticamente nulla a settantadue anni di distanza; in epoca fascista la lotta alla mafia si mostrò come un intervento militare duro e risoluto rivolto ovviamente contro la manovalanza di poco conto tant’è che nel 1945 la politica mafiosa si mostra più fiorente che mai. Quando la folla aggredisce le autorità durante i funerali agli agenti della scorta di Paolo Borsellino nel 1992 ci rende visibile tutto lo sdegno che aveva mostrato la moglie del giudice rifiutando di avere le autorità al funerale del marito che lamentava, come abbiamo saputo recentemente, di avere una scorta solo al mattino ma di essere libero di farsi ammazzare alla sera. Sempre durante i funerali di Borsellino, il giudice Antonino Caponnetto, il creatore del pool antimafia, intuendo bene ciò che stava succedendo, che lo Stato aveva messo in atto una trattativa con Cosa Nostra, dice “è finito tutto”. Tanti anni dopo vediamo come l’affarismo mafioso, la corruzione, l’imbroglio siano diventati non più un fatto criminoso, ma la normale vita quotidiana italiana: quale concorso non è truccato? Quale appalto non (è) già deciso a priori tanto che il bando risulta fatto su misura per chi deve vincere? Quale nomina non è il frutto di un compromesso di potere? Lo Stato, lo sentiamo tutti i giorni dai telegiornali, arresta, sgomina, decapita gruppi e bande mafiose: non siamo forse alla retorica roboante che Camilleri aveva non solo messo alla berlina, ma soprattutto illustrato nella sua funzione di maschera ne La presa di Macallè? Viene sgominato qualcosa che invece si mostra tutti giorni in ottima salute: personaggi politici anche con incarichi di governo scoperti essere uomini legati alla mafia o alla ’ndrangheta , come ha dimostrato un recente volume di Paolo Berizzi (Nazitalia, Castoldi Editore). A chi si riferiva Camilleri quando, recentemente, ringraziava la propria cecità che gli risparmiava di vedere facce ributtanti?
La Sicilia è la regione d’Italia dove la celebre e amara considerazione del principe di Salina (è necessario che tutto cambi affinché nulla cambi davvero) diviene rappresentazione davvero perfetta di un rapporto tra verità e non verità dove la prima non è la negazione della seconda, ma semplicemente una sua versione diversa: qual è la forma dell’acqua? per dirla con un celebre titolo di Camilleri: l’uomo ucciso nella mannara è un uomo politico sotto al quale si cela il faccendiere mafioso oppure, più probabilmente, un mafioso che sembra un politico a suo agio nel trattare affari di governo? La conclusione a cui arriva di fatto Camilleri la dice Tiresia quando afferma, nel bellissimo dialogo con Edipo immaginato da Cesare Pavese, di aver tanto vissuto da sembrargli che ogni storia che ascolto sia la mia[1]: egli è stato uomo e donna, è stato insolente ed ha patito una punizione orribile, è stato assassino e vittima. Può dire cose vere perché ha imparato che si può vedere oltre l’apparenza – ho sempre visto le sventure toccare a suo tempo dove dovevano toccare.
Vedere oltre l’apparenza non significa, è Camilleri stavolta a far parlare Tiresia, prevedere il futuro. Nient’affatto: si tratta di non lasciarsi accecare dall’evidenza, questa sì mortifera, di ciò che è messo lì a bella posta per farsi vedere. La lettera rubata, ci ha mostrato Lacan, è messa lì in bella vista appunto per non essere veduta. Io non faccio divinazioni, io faccio deduzioni dice con grande energia Tiresia/Camilleri. Il mafioso e il politico non sono come il rovescio ed il diritto di una medaglia, una cosa non preclude la visione dell’altra. Il mafioso è il politico, basta volerlo vedere, basta dedurlo; come aveva detto tanti anni fa Pier Paolo Pasolini: Io so. Basta volerlo sapere. Ma ci sono ancora altre facce del prisma; il timore dell’inganno induce il sospetto ed il sospetto produce l’incapacità non di sapere, bensì di capire. Camilleri ce lo ha mostrato con grande vigore in tutta la sua opera e ne ha dato un quadro vivissimo ne La concessione del telefono e ne La scomparsa di Patò. Tomasi di Lampedusa ci aveva fornito il meccanismo e l’origine individuandoli nella storia dell’Italia, come ha fatto molti anni dopo Mario Martone in Noi credevamo: Sciascia, Bufalino, Pirandello e Camilleri ci hanno mostrato il prisma indicandocene il fascino perverso. Non si tratta però di non credere più in nulla concludendo che nel magma nulla è più distinguibile, individuabile: il sono tutti uguali che, lungi dall’essere la verità, è l’essenza di un’ideologia fascista. La verità non è la scoperta di qualche cosa che non muta, come direbbe Emanuele Severino, bensì la consapevolezza di una costruzione, come ci aveva indicato Freud, che ricostituisce ciò che non è visibile per mezzo dell’accecamento di fronte alla banalità di ciò che è visibile. Certamente la costruzione non è la verità, ma è ciò che più gli si avvicina, se si riesce ad avere il coraggio, aveva detto Bion, di cambiare il vertice di osservazione. In questo senso va preso l’elogio della cecità che accomuna Camilleri e Freud.
La questione della lingua
Camilleri in un’intervista televisiva aveva spiegato in modo chiarissimo come nascesse la lingua dei suoi romanzi, un siciliano-italiano comprensibile da tutti. Diceva che sulla struttura sintattica dell’italiano, che lui teneva ferma, inseriva termini siciliani che erano in grado di fornire vividezza e di avvicinare maggiormente il lettore o l’ascoltatore alla cosa costituita da ciò che la lingua dovrebbe e vorrebbe trasmettere. L’intellettuale siciliano riproponeva qui con forza quella che per Saussure era il vivo della parole giustapposto alla forma stabilizzata della langue. Massimo Cacciari, in uno studio recentemente pubblicato (La mente inquieta. Saggio sull’umanesimo) ritrova i fondamenti di questo concetto in Dante e nel De vulgari eloquentia: se gli infanti assuefiunt sine omnia regula la lingua matrice “ciò non esclude affatto che essa possa elaborarsi e venire scritta con nobiltà pari al latino”. La lingua non deve essere sacralizzata, aggiunge; “nessuna lingua è mai perfetta”. Per divenire lingua della comunità, essa non deve divenire Verbum, ma deve subire il lavorio incessante dei parlanti, come li aveva chiamati Ferruccio Rossi-Landi: quando essa riesce a divenire strumento di comprensione e di chiarimento, allora deve tornare ad avere una forma, una grammatica ed una sintassi per poter essere usata, con i minori fraintendimenti possibili, nei tribunali e negli atti formali. Chi articola la parola, chi ne trova la formulazione migliore avvicinandola quanto più è possibile alla cosa – continua Cacciari – è il poeta: questi non inventa dal nulla, ma macina le parole fino a renderle nella forma meno infelice possibile. Camilleri ancora una volta ripropone la convinzione secondo la quale non esiste una verità da scoprire – il grado zero della comunicazione, come lo avevano chiamato i linguisti della scuola di Liegi – ma un lavoro attraverso il quale si può dare un’immagine della verità che proviene non da uno scoprire ma da un costruire: come ci ha detto in maniera fulminante Emanuele Severino, il vivere errante dell’uomo – e non potrebbe essere se non in questo modo – è consentito dal credere che, in quanto tale, è volontà, e la volontà è pensare che le cose presenti e passate siano ciò che essa crede che siano o siano state. Le fede-volontà è interpretazione (La potenza dell’errare).
Sulla funzione del dialetto e sulla sua incidenza sulla lingua, sull’italiano, si era anche soffermato Gramsci quando lamentava che l’educare i bambini a parlare solo la lingua nazionale lasciando morire il dialetto li avrebbe portati a perdere un bilinguismo naturale; negli anni cinquanta in effetti la scuola italiana operò perché i dialetti venissero abbandonati. Solo recentemente le forme dialettali paiono venire recuperate da parte di ceti sociali colti proprio con l’intenzione di evocare l’immediatezza e la forza del dire, mentre un’ideologia localistica e difensiva ripropone il dialetto e la grevità visti come espressione della genuinità irsuta del rusticus contrapposto all’uomo di città che usa la lingua/verbum: è, ovviamente, quest’ultima la riedizione dello strapaese reazionario che furoreggiava durante il ventennio fascista.
Non stupisce naturalmente più di tanto che nella miseria culturale contemporanea la lingua dei libri di Camilleri sia stata celebrata, in occasione della morte dello scrittore, dai commentatori televisivi esperti nell’esprimere opinioni, i cosiddetti opinionisti (che significa che qualcuno di mestiere faccia quello che ha opinioni su qualsiasi cosa? Una volta erano solo i barbieri a fare questo sperando di farsi dei clienti fissi sia tra coloro che si facevano la barba parlando di donne, sia tra quelli che sproloquiavano di politica tagliandosi i capelli), parlando di una geniale invenzione dello scrittore di Porto Empedocle che giocosamente si era inventato una lingua surreale e spassosa. Per questi quaquaraqua, bellissima espressione coniata da Sciasca ne Il giorno della civetta, la lingua inventata da Camilleri sono gli sproloqui di Catarella, l’agente telefonista dei romanzi centrati sul commissario Montalbano, la cui figura, diceva Camilleri, gli era stata suggerita da un attendente del padre che sproloquiava, come accade talvolta alle persone con scarsa istruzione che ammirano e vogliono assomigliare a quelli che paiono loro essere superiori perché parlano un linguaggio che non sono in grado di comprendere (era un tema questo di Don Milani, ma gli opinionisti lo saprebbero solo se chiamati a dare una loro opinione sulla scuola di Barbiana). Il di persona personalmente di Catarella è diventato, al bar e nei salotti, l’equivalente del basta la parola, l’espressione con la quale in uno sketch di Carosello di tanti anni fa il comico Tino Scotti sottolineava le virtù terapeutiche di un lassativo. Il vedere qualcuno che è talmente a poco agio con la lingua da far sentire chiunque di un livello superiore, era il meccanismo che aveva portato al successo, secondo Umberto Eco, il personaggio di Mike Bongiorno, un presentatore televisivo italoamericano noto per le gaffe che la sua esibita ignoranza gli faceva fare in continuazione: chiunque poteva vedere allora in Mike Bongiorno ed oggi in Catarella un individuo ancora più asino di lui.
È illuminante che nella stessa trasmissione nella quale Camilleri illustrava con intelligenza la ragione ed il significato della lingua da lui impiegata nei suoi scritti, il quaquaraqua di turno spiegava al pubblico televisivo le sue notevoli riflessioni sulla lingua dello scrittore siciliano. Verrebbe da domandarsi perché la Rai non abbia almeno la cura di chiedere qualcosa ai tanti bravi studiosi che ci sono in questo paese piuttosto che ad uno dei tanti “critici” di quart’ordine che parlano di un libro avendone letto solo la quarta di copertina. Non è un fatto trascurabile l’osservare che in inchieste svolte sulla lingua e i dialetti negli anni cinquanta e sessanta, l’ente televisivo si avvaleva di rinomati e seri linguisti, mentre oggi, nella società della pubblicità e delle merci, viene sempre privilegiato il personaggio noto e gradito al pubblico televisivo ad onta della sua specchiata ignoranza.
Montalbano
Il commissario creato da Camilleri è un uomo che rappresenta compiutamente una sintesi dolorosa di consapevolezza, di delusione profonda eppure anche, sulla scia di Gramsci – Camilleri era comunista – di tenace volontà di non venire meno a un’idea di giustizia che capisce le debolezze dei tanti che si macchiano di colpe e di delitti; Montalbano è però inflessibile con coloro che approfittano della propria posizione di potere per avere privilegi e per poter infrangere a man salva le stesse leggi e gli stessi principi che a parole dicono di difendere e di sostenere. Spesso non conduce nemmeno in carcere uomini che si sono macchiati di un delitto per punire qualcuno che del delitto e della soperchieria aveva fatto una professione: è il caso del vecchio pastore che uccide il proprio figlio emigrato negli Stati Uniti venti anni prima quando questi gli confessa di uccidere a pagamento e di aver assassinato anche dei bambini (Il gioco delle tre carte): è come se Montalbano sapesse perfettamente che il fare giustizia può comportare l’assunzione di una colpa talmente grande da essere, su un’ipotetica bilancia, superiore alla comoda scorciatoia fornita dall’applicazione impersonale della legge. È possibile anche, per Montalbano, capire come funziona l’etica e la mente di un capo mafioso come il vecchio Sinagra di cui si può addirittura apprezzare la dura coerenza, ma bisogna insieme aver sempre presente che le coordinate della mafia sono quelle del potere e della ricchezza e che l’adeguarvisi fa diventare, irrimediabilmente, mafiosi. Ma quale è il confine tra mafia e cosa pubblica, quando un sindaco, o un parlamentare, che provengano o meno da famiglie mafiose, si comportano avendo per stella polare esattamente il potere e la ricchezza?
Montalbano è un intellettuale che sente il dolore di vivere in un tempo e un luogo dove la distinzione tra gli affari e la cosa pubblica si è fatta quasi irriconoscibile e dove lo Stato spesso non si identifica affatto con un’autorità che combatte le ingiustizie, ma che invece le cela sotto la propria autorità. Montalbano assomiglia molto di più al principe di Salina che al capitano Bellodi de Il giorno della civetta. Il capitano Bellodi è un emiliano consapevole dell’importanza della Resistenza quale pilastro della vita repubblicana; il romanzo di Sciascia è del 1960, un’epoca nella quale l’avvicinamento al governo del Partito Socialista, l’egemonia culturale che il Partito Comunista aveva in tanti ambiti della cultura umanistica ed universitaria, facevano balenare speranze di cambiamento reale anche nella Sicilia dei semidesti, termine con il quale Tomasi di Lampedusa, per bocca del principe di Salina, indicava l’intellettualità siciliana che sa ma non vuole trarre da questo sapere alcuna spinta all’azione, che vede ma tiene per sé le considerazioni su ciò che è visto. Montalbano non è Bellodi, si muove in un tempo storico completamente diverso, dove, come nella Sicilia del 1860, la delusione e il disincanto illuminano la realtà ma non sono sufficienti ad indicare una via. Montalbano si muove tra uomini politici incapaci, stupidi e corrotti, all’interno di uno Stato, come dice in un romanzo al suo vice Mimì Augello, che – si riferisce a quanto era avvenuto alla scuola Diaz a Genova nel 2001 – non solo massacra a manganellate dei ragazzi che manifestano contro i potenti della terra, ma che addirittura fabbrica le prove per poter giustificare un intervento rabbioso, criminale e fascista. Montalbano vuole dimettersi perché non accetta di far parte di uno Stato nel quale la polizia, e quindi lo Stato stesso, si copre di tali infamie. Sarà Augello a fargli cambiare idea rimproverandogli che questo Stato non è fatto solo dai criminali di Genova poi promossi ad alti incarichi, ma anche da persone per bene come lui stesso, Augello, e come l’altro aiuto di Montalbano, Fazio e anche da uomini buoni e ingenui, angeli li definisce Augello, come Catarella.
Questo è l’aspetto “gramsciano” di Montalbano: lo Stato è composto nelle sue classi dirigenti da individui corrotti o corruttibili, incapaci di guadagnarsi la benché minima fiducia da parte dei cittadini, ma esso è anche composto da uomini e donne che fanno il proprio lavoro onestamente e seriamente, che ambirebbero a riconoscersi in una mano pubblica che prende le loro parti piuttosto che quelle dell’affarismo, dei vizi privati, contraltare delle pubbliche virtù.
La Sicilia di Montalbano, come quella del principe di Salina, è certamente un prisma nel quale le infinite facce impediscono di individuarne quella vera anche perché, come tale, non esiste; ma l’amara acquisizione che viene dalla capacità di analizzare e confrontare le cose porta ad una consapevolezza che riconosce l’essenza del prisma non nella sua poliedricità, ma nella poliedricità stessa che, come tale, vuol rendere impossibile il capire. Fabrizio di Salina coglie immediatamente che la Sicilia verrà pure liberata dai Borboni anche utilizzando l’entusiasmo e la speranza suscitate da Garibaldi, ma che il nuovo che avanza è il ceto rappresentato da Calogero Sedara, uomo d’affari che intuisce prontamente che per continuare indisturbato i propri traffici e per veder realizzate le proprie mire bisogna diventare liberali e savoiardi da borbonici e conservatori quali si era: l’autorità del Re, il plebiscito, il protezionismo, la libera circolazione delle merci, il voto popolare, la corte e quant’altro, tutto può servire agli affari: se è necessario cambiare, si cambia, l’importante, come diceva Marx, è che il libro mastro della bottega continui a rimanere la stella polare. Alla festa per il fidanzamento tra la figlia di Sedara ed il nipote di Fabrizio, il primo arriva con un frac di pessima fattura e non cessa di mostrarsi a bocca aperta di fronte alle bellezze del palazzo dei Gattopardi. Il principe vede chiaramente quanto quel parvenu rappresenti una classe che, insieme, segna la morte della mentalità nobile e cavalleresca, oramai incapace di rappresentare se non se stessa, e l’avvento al potere di uomini che non fanno del denaro e del potere un mezzo per governare, bensì fanno del governare un mezzo per avere denaro e potere.
Contro siffatta gente sembra, per Camilleri, non esserci antidoto se non la tenacia di un lavoro ininterrotto, un “fare il proprio dovere”, come fa appunto il commissario di Vigata, non immaginando certo che ciò possa costituire un fattore di riequilibrio di costruzioni che si reggono da un secolo e mezzo sulla separazione tra legge e giustizia, tra morale ed etica, tra parole e prassi. Lavorare al proprio compito con onestà colloca innanzitutto nel campo opposto a quello della menzogna e del crimine affaristico: forse in tal modo, sembra pensare Montalbano, i domani possono essere costruiti e, proprio in virtù di questo, sfuggire all’eterno ritorno dell’uguale.
Montalbano, come Camilleri, si allontana qui dal radicalismo impotente del personaggio principale de Il Gattopardo, ma non può nemmeno essere l’onesto capitano Bellodi che crede che anche la Sicilia, con la mentalità delle sue classi dirigenti, dovrà pure riconoscere la positività e la bontà della Costituzione della Repubblica. Siamo a questo punto ad un giro di volta, ad un tertium datur, assai simile a quello che praticamente tutti gli italiani affrontarono dopo l’8 settembre del 1943: tra il continuismo, dettato dalla monarchia e dallo stato liberale e rappresentato da Benedetto Croce, e quello fondato sull’onore proposto da Mussolini e dai tedeschi, molti scelsero la via della montagna e della lotta di resistenza. Tra il tessuto di ruberie e di complicità da un lato ed il nobile rifiuto delle dimissioni dall’altro, Montalbano/Camilleri sceglie il resistere, resistere, resistere di Francesco Saverio Borrelli, scomparso tre giorni dopo Camilleri, e che aveva detto poco tempo fa che forse non valeva la pena di buttare all’aria un mondo per ritrovarsi in questo che è anche molto peggio.
[1] Pavese Cesare Dialoghi con Leucò RCS, Milano 2019, pag.22