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Strage di Parigi e invasione della mente: noi e gli islamici

letteredi Aldo Giannuli

A completamento dello scambio di riflessioni via mail sull’attentato di Parigi, pubblichiamo questo lavoro di Aldo Giannuli, storico,ricercatore universitario presso la facoltà di Scienze politiche dell’Università Statale di Milano che propone un’analisi sullo scontro fra Occidente e Jihadisti condotta attraverso una lettura culturale, psicologica ed economico-politica.

Lo shock da globalizzazione e l’eccidio di Parigi.

Nei primi anni novanta, in un clima di grande euforia, divenne pienamente maturo il processo di globalizzazione, fra aspettative ultra ottimistiche e formidabile sottovalutazione di rischi ed effetti controintuitivi1.

Ma, prima con la strage dell’11 settembre 2001, poi con lo sfavorevole evolversi delle guerre di Afghanistan ed Iraq, infine con la crisi finanziaria conclamata nel 2008, il clima è diventato sempre più preoccupato e la globalizzazione non è più parsa quel “pranzo di gala” che si sognava. E si è iniziato a parlare di “shock da globalizzazione”, un concetto apparso da pochissimo ancora tutto da scavare. Nella maggior parte dei casi esso è associato alle crescenti diseguaglianze sociali nelle società occidentali, talvolta alla manifestazione di crescenti difficoltà di comunicazione culturale. In realtà, è un terreno di indagine molto più profondo ed esteso di quel che non sembri e che presenta aspetti psicologici insospettati da studiare.

Con il massacro parigino abbiamo avuto l’epifania dello shock da globalizzazione.

Europa secolarizzata ed islamismo fondamentalista a confronto sul tema della morte.

Lo scontro in atto fra Occidente e Jihadisti, come spesso si dice, è di tipo asimmetrico, perché è combattuto fra Stati e formazioni clandestine, fra eserciti pensati per la guerra regolare e soggetti che conducono una guerra irregolare. Questo è noto; quello che invece, quasi sempre, sfugge è la principale asimmetria dello scontro che, prima ancora che militare o politica, è di carattere psicologico, e dalla quale discende tutto il resto. Ed è il diverso atteggiamento di fronte alla morte dei due schieramenti combattenti.

Una delle chiavi interpretative della modernità può essere il suo rapporto con la morte. A lungo l’Europa ha condiviso con tutti gli altri modelli di civiltà il carattere prevalentemente religioso e, come tale, ha risolto il suo rapporto con la morte dentro un rapporto di fede, che assicurava un oltre, dopo la morte; quel che, in qualche modo, conciliava l’uomo con l’idea della sua fine personale. Man mano che si è proceduto sul sentiero della secolarizzazione, questa conciliazione è andata via via evaporando ed oggi, giunti all’età dell’ateismo e dell’agnosticismo di massa, è praticamente svanita: anche una parte dei credenti (peraltro minoranza, nella società europea) non è più tanto sicura della vita ultraterrena. Finita anche la breve stagione romantica della “morte eroica” (per la patria o per la classe, poco importa) ed approdati all’epoca dell’iperindividualismo, l’uomo europeo (ma diciamo meglio: occidentale) si scopre solo e del tutto impotente davanti alla morte.

La modernità si è costruita intorno all’idea di un dominio totale dell’uomo sulla natura e, con esso, il sogno inconfessato della vittoria  sulla morte, supremo punto di arrivo di quel dominio.

Tutto l’Ottocento ha esorcizzato la morte, con strategie che decostruivano l’idea stessa della mortalità, attraverso la promessa di progressi scientifici che annullassero, se non il fenomeno stesso della mortalità, ogni singola ragione specifica di morte2

degradata da “destino dell’uomo” a incidente. Si muore per una malattia, per un sinistro o perché uccisi, dunque per una qualche causa efficiente accidentale. Dunque, occorre cercare di neutralizzare ogni singola causa e la scienza prometteva di farlo.

Ma con il sopraggiungere del disincanto della modernità, segnato dal “nuovo senso di disperazione”, l’uomo “moderno” ha scoperto sempre più limiti al suo sogno di onnipotenza. Il progresso non è più infinito e senza effetti imprevisti e non auspicabili. Freud dice che ciascuno, nel suo inconscio, si ritiene immortale e l’angoscia di morte è solo il senso di colpa per un desiderio rimosso. In qualche modo, l’illusione della vita ultraterrena, coltivata dalla fede prima, e con la fede nell’onnipotenza della scienza, rendeva in qualche modo plausibile quella convinzione profonda. Ma essa ha iniziato a vacillare con la crisi della modernità, e, nel subconscio ha iniziato a manifestarsi il molesto senso di una fine individuale, senza riparo e senza speranza. Incapace di elaborare il lutto del senso di immortalità personale, l’uomo occidentale ha decostruito l’idea della morte, lasciandola “disadorna, nuda, priva di significato. La morte non è che uno scarto di produzione della vita; un residuo inutile, lo straniero totale nel mondo semioticamente ricco, affaccendato e fiducioso abitato da abili e ingegnosi attori”3 . Qualcosa di indicibile, da rimuovere e nascondere.

Esaurita la strategia della modernità, affidata all’onnipotenza della scienza (anche se qualche équipe medica continua a coltivarlo dedicandosi, in tutta serietà, al delirante “progetto immortalità”) è subentrata una nuova strategia di aggiramento: la decostruzione dell’immortalità, affidata alla negazione del tempo, alla riduzione della vita ad un eterno presente, che abolisce ogni futuro e, con esso, la prospettiva di un mondo senza di noi individualmente presi. Si vive in un presente eternizzato4 che teme il confronto con la storia, che abolisce ogni previsione di lungo periodo, che rimuove il passato. E’ intollerabile l’idea del tempo in cui non ci saremo come quello del tempo in cui non eravamo. La morte è horror vacui e l’uomo occidentale è sempre più cenofobico, detesta l’assenza di suoni, di attività, la meditazione, la solitudine, il silenzio, ha bisogno di “fare”.

Negli ultimi venti anni le foto da satellite dimostrano l’aumento esponenziale, in tutto il pianeta, delle lucanie in orari notturni. Nello stesso tempo è in vertiginoso aumento anche il rumore: non c’è attimo della giornata in cui non siamo raggiunti da un rumore di fondo crescente. Silenzio e buio – qualità proprie della notte – sono troppo simili al “vuoto” del “dopo esistenza”, per poter essere sopportati ed anche la notte è bandita.

Ma il resto del mondo, e quello islamico in particolare, è restato estraneo a questo percorso psicologico, non ha rimosso il suo credo religioso, che resta largamente presente e creduto non tiepidamente.

Nella complessa rivolta contro la modernità segnata dal fondamentalismo, il richiamo alla fede fonda quel senso di superiorità dell’Islam rispetto alla “decadente” civiltà occidentale, che caratterizza proprio la rivalsa jihadista, documentata dallo sprezzo della vita dei suoi combattenti e dalla loro ricerca del martirio. E qui si annida il punto critico della resistenza psicologica dell’uomo occidentale rispetto all’offensiva islamista.

Gli jihadisti terrorizzano l’uomo europeo secolarizzato sia per il carattere volutamente cruento delle proprie azioni, che gli “sbattono la morte in faccia” sia, e molto di più, con la loro disponibilità al martirio, che li rende esseri “mostruosi” agli occhi della nostra società iperindividualista. Che deterrenza puoi avere nei confronti di qualcuno che non teme la morte e che esibisce questa sua fede cieca? Di qui l’idea dell’impossibilità di un confronto politico – anche il più aspro – e la riduzione del tutto a scontro militare che deve estirpare questa presenza demoniaca. E di qui anche il tipo di comunicazione adottato dagli jihadisti che sottolineano a più non posso la morte inflitta e cercata.

Di fatto, questo fenomeno è alla base dell’ideologia sicuritaria che si è diffusa nelle nostre società rendendole fragilissime. Ed allora, chiediamoci con Marc Augè: “Non sarà che, oggi, la paura della vita abbia rimpiazzato la paura della morte?”5.

La colpa d’origine del colonialismo e l’insorgenza fondamentalista

L’Europa è stata molto generosa con sé stessa, autoassolvendosi del suo passato coloniale: concessa l’indipendenza agli ex colonizzati, ha ritenuto che ogni problema fosse risolto e che una parentesi di storia si chiudesse senza strascico alcuno.

Ma è così?

Per circa un ventennio, dagli anni venti ai quaranta, nelle facoltà di medicina francesi si insegnava che gli algerini hanno una conformazione neurologica particolare, che li rende fisiologicamente criminali, aggressivi, violenti. Delinquono perché non possono far altro. Nel linguaggio coloniale francese ogni parola che indicava un algerino corrispondeva ad un insulto come bicot (capretto) sinonimo di nordafricano. Nelle scuole di primo e secondo grado delle colonie, i libri di testo – tutti di autori europei – parlavano della naturale superiorità razziale dei bianchi che le genti di colore, malgrè soi, dovevano sforzarsi di imitare. Sino a circa mezzo secolo fa, medici, antropologi, biologi, psicologi, davano per scontata l’inferiorità naturale delle popolazioni di colore.

Tutto questo gli europei lo hanno rimosso. Gli islamici no. Mezzo secolo, sul piano della storia, un  tempo trascurabile.

D’altro canto, se ogni fede religiosa è soprattutto un’antropologia, dobbiamo chiederci quale sia stato il sedimento storico profondo della vittoria militare di una cultura monoteista (quella cristiana) su un’altra cultura monoteista (quella islamica):  Jan Assman6 sostiene che il seme della guerra di religione è proprio nel monoteismo.

E’ un fatto che le religioni monoteiste siano quelle che hanno vissuto più frequentemente il fenomeno delle guerre di religione e che il conflitto più lungo (di fatto dall’VIII secolo in poi) è proprio quello che ha contrapposto a più riprese le due grandi religioni monoteiste.  Poitiers, le crociate, la cacciata dei Mori di Spagna, Lepanto, Vienna, ecc.  non sono ombre dissolte del passato, vivono nel perdurante senso di ostilità che è sepolto nel profondo della psicologia dei popoli arabi ed  europei. Da questo punto di vista, il giochino di cercare nel Corano la citazione che mostri la natura intrinsecamente fanatica e sanguinaria dell’Islam, è facilmente smontabile, pescando nell’Antico Testamento espressioni del tutto analoghe e non meno violente.

Ed è nella cornice di questo conflitto millenario che trova posto la vicenda del colonialismo europeo nel Nord Africa (e per un ventennio anche in Siria ed Iraq).

C’è un aspetto di quella vicenda, che non ha ricevuto la necessaria attenzione da parte della maggioranza degli storici: il colonialismo, prima e più ancora che di territorio fu invasione della mente. Su questo resta insuperata l’opera di Franz Fanon che ancora oggi può dirci molto sulla sostanza psicologica del conflitto in atto7.

Il colonizzato, tenuto in costanti condizioni di inferiorità, fu costretto al permanente confronto con il bianco. Persino nell’intimità sessuale il comportamento era determinato da questo confronto: “..Nel rapporto col bianco la donna di colore conquista finalmente l’accesso al venerato mondo dei dominatori: l’uomo di colore nel rapporto sessuale con una donna bianca si vendica del padrone coloniale e dimostra la sua parità, il suo essere uomo. In fondo, però, questo atteggiamento dimostra solo una cosa: i valori del colonizzatore vengono riconfermati dal senso e dall’importanza che il colonizzato attribuisce alla situazione eccezionale: il pregiudizio razzista ne riceve una nuova ratifica”8.

E questo continuo confronto con il bianco in condizioni di inferiorità, determina la nevrosi collettiva diffusa fra i colonizzati che hanno sia manifestazioni psicosomatiche (ulcere, disturbi del linguaggio, coliche nefritiche, ipersonnie, tremiti idiopatici, irrigidimento muscolare), sia comportamentali come i forti sensi di insicurezza, la pronunciata aggressività che sfocia nei tassi insolitamente alti di attività criminali nell’Algeria degli anni in cui Fanon opera. Ma, tale violenza non si indirizzava nei confronti del “padrone bianco” (troppo lontano e potente) ma contro gli altri colonizzati: “Nella situazione coloniale…gli indigeni  hanno tendenza a farsi reciprocamente da schermo. Ciascuno nasconde all’altro il nemico nazionale. E quando, spossato dopo una dura giornata di sedici ore, il colonizzato si lascia cadere su una stuoia e un bambino attraverso il tramezzo di tela piange e gli impedisce di dormire, come per caso, è un piccolo algerino. Quando va a domandare un po’ di semola ed un po’ d’olio dal droghiere cui deve già alcune centinaia di franchi e si vede rifiutare questo favore, un immenso odio e una gran voglia di ammazzare lo sommergono, e il droghiere è un algerino…”9.

Queste sofferenze neurologiche e psicologiche non si sono dissolte con l’indipendenza, hanno lasciato ferite profonde (e non solo in Algeria). Di mezzo, però, c’è stata la guerra di indipendenza che ha mutato molte cose: gli algerini hanno imparato a rivolgere la loro aggressività verso l’invasore e non più fra di loro (è sintomatico che, a partire dalla rivolta di Algeri, nel 1954, i tassi di criminalità locali crollarono di colpo e si mantennero bassi anche per un lungo periodo dopo l’indipendenza). Ed a combattere il nemico esterno impararono –anche se con scarsa fortuna- anche egiziani, giordani, siriani, libanesi, iraqueni nelle guerre con Israele. Poi vennero le guerre inter islamiche (Iran-Iraq, Arabia Saudita-Yemen ecc.). L’aggressività non era più solo rivolta verso l’interno ma sempre più verso l’esterno, assumendo i panni sia di guerre regolari che di guerriglie (Algeria, Yemen, Palestina, Afghanistan, Iraq).

E’ degno di nota che la netta maggioranza dei conflitti attualmente in corso vedano impegnato almeno un paese o un’etnia islamica.  Questo ha dato ai maomettani un senso di accerchiamento, che si è combinato con le troppe sconfitte subite in questo secolo, dopo la disfatta dell’Impero Ottomano che dissolveva l’ultimo califfato.

La modernizzazione ha avuto un urto drammatico sul mondo islamico che è quello che stenta più di ogni altro a trovare un suo equilibrio, sia esterno che interno, tanto all’area quanto ai singoli stati.

E’ di qui che parte l’insorgenza islamista in una progressione sempre più fitta di avvenimenti: 1928 (non molto dopo la dissoluzione dell’impero Ottomano) nascita dei fratelli musulmani, 1949 morte di Al Banna assassinato, 1952 la rivolta di Alessandria di Egitto, 1966 morte in carcere di Al Qutb, 1967 guerra dei sei giorni, 1979 rivoluzione fondamentalista in Iran ed insurrezione fondamentalista a La Mecca, 1979-89 invasione sovietica in Afghanistan, quindi nascita di Al Quaeda…10.

Come si noterà, il fenomeno ha radici lontane nel tempo (1928) ma è “esploso” in particolare a partire dagli anni novanta, in parallelo alla marcia trionfale della globalizzazione. E pare evidente che si tratti di una rivolta contro la modernità imposta dalla globalizzazione, vissuta come una nuova “invasione della mente”. Lo jihadismo è il frutto più vistoso ed imprevisto della globalizzazione che ha un suo nascosto contenuto conflittuale. Lo jihadismo è il principale fattore di shock. L’eccidio di Parigi lo manifesta con particolare evidenza: una sorta di ripetizione del messaggio dell’11 settembre.

L’afasia degli intellettuali europei.

Nella vicenda delle vignette di Charlie Hebdo è possibile scorgere tratti comuni di quello che possiamo definire l’ “afasia degli intellettuali”. Un termine che cercheremo di spiegare proprio a partire dalla vicenda di  Charlie.

Ovviamente, rimane fermissima la condanna morale del massacro ed il rifiuto intransigente di ogni censura, ma, superata l’immediatezza del fatto, chiediamoci: “Le vignette di Charlie erano politicamente opportune? Quale è stata la loro oggettiva funzione politica?”.

La cosa che colpisce di più è la caratterizzazione ideologica dei redattori del settimanale: Stéphane Charbonnier ha collaborato con l’Humanitè, il giornale del Pcf, le sue vignette erano di schietta ispirazione anticapitalistica, Jean Cabut era stato conquistato all’antimilitarismo dalla sua esperienza di soldato in Algeria, Philippe Honoré collaborava a Liberation e quanto a George Wolinski non c’è bisogno di ricordare che è stato una delle espressioni più forti del maggio francese con il suo orientamento libertario. Dunque, non certo persone di destra vicine alla Le Pen o sospettabili di razzismo.

La loro satira, anche nei confronti dell’Islam, aveva un segno libertario, proponendosi di combattere non una fede in sé, quanto il fanatismo di una parte (più o meno grande ) dei suoi seguaci.  D’altra parte, proprio le minacce dei fondamentalisti (la redazione fu distrutta da un attentato nel 2011) li obbligavano a “tenere il punto”, proseguendo su quella strada. E, dunque, sostenere che “se la sono andata a cercare” è un’ ignobile manifestazione di viltà morale. E neppure è in discussione il tipo di satira fatta (per la verità di grana un po’ grossa) assai simile a quella anticlericale, ai primi del secolo, di Podrecca e Galantara, ma i due colpivano una fede del loro mondo ed a nessuno poteva venire in mente che volessero disprezzare la cultura europea, perché il conflitto, fra laici e credenti, restava tutto interno ad essa.  Nel nostro caso, al contrario, la polemica laica si intreccia inevitabilmente con quella fra culture e civiltà.  Una parte degli islamici (e non mi riferisco ai fondamentalisti, che non avrebbero bisogno di alcun pretesto, ma anche a molti credenti anche di orientamento “moderato” e persino non credenti ma di nazionalità mediorientale) hanno avvertito, in quella satira, l’eco del disprezzo dei colonizzatori. Nella manifestazione milanese contro i terroristi di Al Quaeda, molti appartenevano alla locale comunità islamica, che  esprimevano la loro condanna per l’eccidio, però, hanno colto l’occasione per dire (era scritto anche su qualche cartello) “Con la religione non si scherza” ed alcuni loro portavoce hanno espressamente chiesto rispetto per la propria cultura.

Siamo convinti che Cabu, Wolinski e gli altri non intendessero assolutamente riprendere i luoghi comuni del razzismo colonialista, ma non hanno considerato adeguatamente come gli altri avrebbero letto le loro vignette. E qui siamo al punto: gli intellettuali europei non hanno prestato ascolto ai nostri interlocutori afroasiatici e non sanno parlagli (in questo senso dico “afasia degli intellettuali”). Sarebbe indispensabile che i nostri lavoratori della cultura (storici, sociologi, politologi, psicologi in primo luogo, ma poi anche giuristi, economisti, letterati e via via medici ecce cc) assumessero come loro principale compito la mediazione culturale, indispensabile se vogliamo evitare davvero il conflitto fra le diverse civiltà che la globalizzazione mette ogni giorno a contatto.

Viceversa, gli intellettuali, chiusi nelle proprie carriere, seguitano imperterriti a lavorare come se il mondo fosse sempre e solo l’Europa e gli Stati Uniti, calzando addosso a tutto il resto del mondo le solite intramontabili categorie europee. Un esempio? E’ il caso della categoria di “Islamo-fascismo” coniata ai tempi della guerra dell’Afghanistan e disinvoltamente usata da intellettuali come Cristopher Hitchens, Oriana Fallaci, Giuliano Ferrara. Una delle più colossali fesserie che siano mai state dette. E non perché manchino settori di Islam (settori, non tutto l’Islam) profondamente autoritari ed anche totalitari. Qui il problema è capire le caratteristiche proprie dei fenomeni culturali, politici, sociali ecc. che stanno avvenendo nell’Islam, non dobbiamo stabilire la graduatoria dei peggiori criminali della storia. Forse quelli di Boko Haram o del Califfato sono anche peggiori dei nazisti, ma hanno caratteristiche proprie e parlare di fascismo serve solo a confondere le idee. Le categorie di fascismo ed antifascismo non sono universali.

Una volta, la frase di una mia studentessa di colore mi rivelò di colpo quanto poco questo approccio eurocentrico parli al Mondo. Avevo appena finito di parlare del massacro degli ebrei perpetrato dai nazisti e, nella discussione seguente, una ragazza zairese, per nulla impressionata dal racconto dello sterminio ebraico, disse “Va bene, voi bianchi siete macellai e vi siete massacrati fra voi”. In Congo i belgi trucidarono circa 10 milioni di nativi, ma nessuno ricorda Leopoldo I come uno dei grandi criminali della storia. Teorizzare che quello del genocidio ebraico sia un “unicum” storico, oltre che essere una bestialità storiografica, suona alle orecchie dei popoli non europei come un espediente per rimuovere i crimini del colonialismo, dissimulandoli dietro le malefatte di un regime sconfitto, come quello nazista, per restaurare l’onore di francesi, inglesi, olandesi, belgi eccetera.

Si badi che nella frase di quella studentessa non traspariva alcuna pietà per le vittime del furore nazista: per gran parte dei popolo afro-asiatici gli israeliani sono solo europei che hanno occupato un territorio dei palestinesi, cui vanno le loro simpatie. Certo: le cose stanno diversamente, lo sappiamo, ma non è possibile ignorare il punto di vista degli altri che, per quanto erroneo o impreciso non è irrilevante. Tutto questo corrisponde a stati d’animo che sarebbe sbagliato ignorare e che segnalano quanto poco dica, fuori d’Europa, questa storia che continuiamo a raccontarci, con i suoi giudizi di valore, con i suoi topoi, con le sue figure e categorie di riferimento. L’antifascismo è una categoria culturale importantissima ed ancora vitale, per l’Europa, ma dice molto poco al di fuori, a meno di non far rientrare a calci nella categoria di fascismo il regime nazionalista del Mikado, il peronismo, il regime Kemalista, il Kuomintang, i regimi castrensi di Asia ed America Latina, ed, appunto, il fondamentalismo islamico, che sono fenomeni peculiari dotati ciascuno di propria cultura politica. Usare la categoria di fascismo come “generalizzante” non è altro che il solito peccato eurocentrico.

Il problema è che gli intellettuali europei (di quelli americani non è il caso di dire) in gran parte sono stati assolutamente acritici di fronte al processo di globalizzazione o ne hanno criticato solo singoli aspetti (società del rischio, liquidità…). Ma non ne hanno colto il contenuto aggressivo e potenzialmente bellico. Raramente ne hanno criticato la prospettiva di puro e semplice adeguamento delle “periferie del Mondo” alla modernità occidentale, non ne hanno criticato il carattere fortemente ideologico. Solo pochi ne hanno colto l’aspetto fortemente oligarchico legato al predominio finanziario. Tutto questo oggi li condanna all’afasia di fronte alla crisi che si apre e che non è solo finanziaria, ma insieme finanziaria, politica, sociale, culturale. E’ la “paralisi del linguaggio nell’epoca della comunicazione globale” cui Colombo dedica le conclusioni del suo più recente libro. E di questa paralisi, gli intellettuali europei portano la massima responsabilità11.

La paralisi dei decisori e la “sindrome della  gallina con la zampa alzata”.

Come l’osservazione insegna, le galline hanno una caratteristica particolare: quando sono fortemente indecise sulla direzione da prendere o sul da farsi, restano immobili, come in ipnosi, con una zampa alzata. Ed in questa posizione possono restare anche per molti minuti. A volte questa situazione è prodotta da improvvisi lampi che stordiscono l’animale inducendolo ad una sorta di stato di trance, tanto più prolungato, quanto più i lampi si ripetono.

I decisori (statisti, finanzieri, militari ecc..) sono entrati nella globalizzazione a bandiere spiegate ed a passo di carica, convinti che avrebbero facilmente travolto ogni ostacolo e tali sono rimati sino al 2007-2008, quando si è conclamata la nuova “grande crisi”. Il 2008 è stato l’anno di svolta, quando la crisi è stata conclamata in contemporanea alle Olimpiadi di Pechino ed alla crisi georgiana. Le prime annunciarono al mondo che la Cina era venti anni più avanti sulle previsioni e si avviava a diventare in brevissimo tempo la seconda grande potenza mondiale; la crisi georgiana con il mancato intervento americano ed europeo in cui Saakasvili contava, ha segnalato un ritorno tacito di zone d’influenza nelle quali gli Usa non entrano. Le tre cose insieme, segnalarono il tramonto dell’ordine mondiale monopolare che, con la caduta dell’Urss, si era immaginato dovesse imporsi per un’intera epoca storica. In questo contesto Obama era eletto come primo presidente dell’epoca post monopolare. Da quel momento i “decisori” occidentali (tanto in sede politica quanto in sede finanziaria) hanno iniziato ad essere via via meno sicuri. Prima hanno cercato di negare la crisi, dopo l’hanno data per destinata a risolversi in breve, dopo hanno cercato di trattare i diversi casi finanziari e politici come se si trattasse di fenomeni separati e non interdipendenti.

Gli sviluppi successivi (seconda caduta della crisi nel 2011-12; primavere arabe, guerra di Libia, ritiro americano da Afghanistan ed Iraq, ondata “populista” in Europa, crisi del Califfato ecc.) sono stati alti lampi che hanno ulteriormente “accecato” i decisori, riducendone molto l’effettiva operatività: di fatto, di fronte alla crisi finanziaria, l’unica decisione che sono stati capaci di assumere sono state le continue iniezioni di liquidità, mentre nessuno dei tentativi di riforma del settore è andata a buon fine.

In questa paralisi dell’azione dei decisori pesa grandemente l’incapacità degli intellettuali di reagire sviluppando una critica adeguata al sistema.

Il nemico interno: lo jihadista della porta accanto, le banlieu ed i convertiti.

Infine qualche considerazione sull’identità degli “jihadisti di casa”.

Il sociologo franco iraniano Farhad Khosrokhavar12 ha comparato le biografie dei alcuni jihadisti naturalizzati francesi, protagonisti di attentati dal 1995 in poi: Khaled Kelkal (1995), Mohamed Merah (2012), Mehdi Nemmouche (2014), fratelli Kouachi, e ne ha ricavato questi tratti comuni:

  • tutti immigrati di seconda generazione, nati in Europa
  • tutti con precedenti di piccola criminalità
  • tutti con un periodo di detenzione per reati comuni
  • tutti non militanti islamici prima della detenzione e reclutati in carcere o subito dopo
  • tutti hanno fatto un viaggio “iniziatico” in un paese islamico dopo la detenzione.

E’ un identikit molto interessante. Si badi che, come rileva l’autore, i quattro non conoscevano l’arabo e non condividevano le abitudini dei paesi che hanno visitato ma hanno “solo bisogno di illudersi di stare dalla loro parte” e di stare contro il proprio paese.

Questo è l’ “effetto di sradicamento” provocato dalla mancata integrazione, per la quale gli immigrati di seconda generazione non appartengono più al paese d’origine della famiglia, ma non hanno neppure una nuova patria. La Francia si è coltivata una colonia interna, nelle banlieu. La rivolta di una decina di anni fa lo segnalò, ma il segnale non è stato capito: carceri e periferie rischiano di diventare un brodo di coltura molto pericoloso nel prossimo futuro perché la radicalizzazione islamica offre quel senso di appartenenza che la Francia ha negato ai suoi immigrati (e considerazioni del genere possono essere fatte anche per Germania, Italia e Inghilterra, pur se con sfumature assai diverse).

Parallelamente si diffonde il fenomeno dei neo convertiti all’Islam dal Cristianesimo, Ebraismo, ecc. Come mai questi giovani, spesso francesi purosangue (ma anche tedeschi, italiani, inglesi ecc.) fanno questa scelta?

Farhad Khosrokhavar suggerisce una soluzione suggestiva per la quale si tratterebbe di una sorta di fenomeno rovesciato del sessantotto: i giovani di quella generazione cercavano la liberazione sessuale, quelli di questa generazione, in parte, si convertono alla ricerca di un rigore religioso che nobiliti la scelta di rinunciare al sesso o di farne un uso molto più morigerato. Una interpretazione suggestiva dicevamo, che ha una sua plausibilità: la liberazione sessuale si è convertita, da circa venti anni, in una sorta di bulimia sessuale (della quale dovremo tornare a parlare) che oggi avrebbe la sua rivolta. Spiegazione interessante, ma forse parziale: i neo convertiti non sono solo giovani, ma anche adulti (come recentemente accaduto ad un esponente siciliano di Forza Italia) e la motivazione di alcuni è spesso diversa. Sospettiamo che quella della rivolta contro la bulimia sessuale vada integrata con la spiegazione del senso di vuoto che molti europei avvertono dopo la fine della fede e dopo il crollo delle convinzioni sull’onnipotenza della scienza. E torniamo a quell’horror vacui che ci riporta al problema del rapporto con la morte dell’uomo secolarizzato. L’Islam offre certezze morali di cui la cultura europea, a molti, sembra incapace. Ed anche questo è il ritorno di quello shock da globalizzazione che ha investito all’inizio l’Islam e che oggi torna come un boomerang sulle società europee.


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  • Primo incontro Seminario “LA CLINICA DEL COCOONING: IL FUNZIONAMENTO DELL’AUTOESCLUSIONE”
  • SEMINARIO “LA CLINICA DEL COCOONING: IL FUNZIONAMENTO DELL’AUTOESCLUSIONE”
  • Presentazione del libro STORIA PASSIONALE DELLA GUERRA PARTIGIANA
  • IN MEMORIA DI PIERFRANCESCO GALLI
  1. ricordiamo Francis Fukuyama, La fine della Storia e l’ultimo uomo,  Bur, Milano 1992; Samuel Huntington , Lo scontro di civiltà, Garzanti Milano 1997; Martin Wolf ,Perché la globalizzazione funziona, Il Mulino, Bologna, 2006 []
  2. Zygmunt Baumann, Mortalità, immortalità e altre strategie di vita, Il Mulino, Bologna, 1995, p. 191 []
  3. Zygmunt Baumann op. cit. pp 175-6 []
  4. Ivi,pp.215 e segg. []
  5. Marc Augè, Le nuove paure, Bollati Boringhieri, Torino, 2011, p.9 []
  6. Jan Assmann, Non avrai altro Dio, Il Mulino, Bologna, 2007 []
  7. Franz Fanon, I dannati della terra, Einaudi, Torino, 1962, recentemente ripubblicato []
  8. Renate Zahar, Il pensiero di Franz Fanon, Feltrinelli, Milano, 1970, pp. 68-9 []
  9. Franz Fanon op. cit. p. 236 []
  10. Si veda Beverley Milton–Edwards, Il fondamentalismo islamico dal 1945, Salerno editrice, Roma, 2010. Anche Rehinhard Sschulze, Il mondo islamico nel XX  secolo, Feltrinelli, Milano, 1998 []
  11. Alessandro Colombo “Tempi decisivi” Feltrinelli, Milano 2014 pp. 212 e segg. []
  12. Farhad Khosrokhavar,  L’identikit del jihadista in “L’Internazionale”, 16 gennaio 2015, p. 18 []