Questioni di stile: finzione, immagine e verità in Cormac McCarthy
“Ormai intorno al carro si accalcavano diverse centinaia di persone, e tutti parlavano in un brusio crescente. Il sole era esattamente sopra di loro. Sembrava appeso lassù in un’abbagliante immobilità, come se si fosse fermato, forse sorpreso di vedere ancora sulla terra quei pupazzi di fango che ci erano stati messi tanto tempo prima. Gli uomini sulla passerella avevano cominciato a sfilare davanti alla porta, qualcuno in punta di piedi, per andare a vedere i resti nel cassone del carro.”1
Il romanzo da cui è tratta questa breve citazione è Il buio fuori, uno dei primi scritti da Cormac McCarthy.
In questa scena, una prima protagonista è la folla di uomini e di donne che s’avvicina a un carro, sul quale è successo qualcosa; è la situazione tipica che si crea dopo un incidente, oppure sulla scena di un delitto.
Il secondo protagonista è ovviamente il sole. Esso è appeso, abbagliante, immobile, sorpreso. Ognuno di questi aggettivi, anche i due più apparentemente ovvi come il secondo e il terzo, non lo sono affatto se consideriamo l’intera sequenza. L’ultimo, inoltre, accoppiato al primo, fa scattare una dilatazione di senso. Il sole può essere appeso e sorpreso soltanto se diventa metafora di qualcosa d’altro e questo si chiarisce meglio nel prosieguo del brano, laddove prende vita una doppia metamorfosi. La prima è quella di cui è oggetto, implicitamente, il sole stesso, la seconda riguarda le centinaia di persone. Questa doppia trasformazione, da sole a dio e da persone a pupazzi di fango, crea un corto circuito; ma non finisce qui.
Il sole, scrive McCarthy, era esattamente sopra di loro. Questa ulteriore descrizione chiarisce meglio perché esso è appeso. Chi può vedere in questo modo e da dove si può vedere in questo modo? L’esperienza di essere esattamente sopra gli altri, a meno di non ritenersi dio stesso, presuppone che esistano, le alte torri, i grattacieli e le macchine da presa appese al loro cavalletto. Il sole-dio, in realtà, è dunque un sole-dio-torre-macchina da presa; quest’ultima riprende dall’alto tutta la scena, come avviene in un set cinematografico. La moltitudine che s’avvicina al carro, invece, è fatta di uomini-pupazzi di fango.
L’asimmetria accentua l’ironia, implicita nel designare la specie umana con un’espressione che ci riporta al testo biblico. Se, infatti, natura (il sole) e tecnica (la macchina da presa come espressione moderna della capacità umana di costruire protesi e utensili) possono mutare e mostrarsi sempre in ogni tempo storico con eguale potenza e come sfingi indecifrabili che osservano dall’alto – al pari di dio -le vicende umane, nella totale indifferenza verso ciò che accade, i pupazzi di fango rimangono quelli che sono ed erano. L’unica differenza percepibile fra natura e sviluppo della tecnica (dalle torri alla macchina da presa), è l’immutabilità dei processi che le riguardano, prerogativa quest’ultima che entrambe spartiscono con la divinità.
Cosa vogliono rappresentare queste poche righe così intense e dense? Un dio stanco degli esseri umani o una semplice trasposizione della finzione letteraria del narratore onnisciente ottocentesco nei nuovi abiti di una macchina da presa totalizzante? Fatto sta che questo brano così apparentemente semplice ci svela da subito (siamo all’inizio del suo percorso letterario), uno degli elementi costitutivi della cifra stilistica di Cormac McCarthy: il suo particolare rapporto con l’immagine e con il cinema.
Naturalmente ci sono altri aspetti assolutamente decisivi, qui già in atto, che il romanziere riprenderà in ogni sua opera: la reciproca indifferenza fra natura e storia, dove la prima è una sfinge che osserva senza intervenire (il richiamo a Leopardi è d’obbligo), risplende spesso di una bellezza abbacinante e vive di una vita propria di cui anche gli esseri umani fanno parte, ma – si direbbe – non più in una posizione privilegiata.
L’immediato proseguimento, successivo al brano citato, ci guida dentro uno scenario altrettanto tipico della narrativa maccartiana: la crudeltà, anzi, ancor più, la scelleratezza dei comportamenti umani, un tratto che va oltre la violenza in senso stretto. Lasceremo tale aspetto in posizione defilata, anche perché sono altri i romanzi, rispetto a questo, nei quali esso diventa più decisivo.
Torniamo allo stile. Siamo sempre ne Il buio fuori, alcune pagine più avanti.
Prenditi un sedia, la invitò una donna.
Grazie.
L’altra era presso la stufa, e attizzava il fuoco rivoltando le ceneri grigie e smorte. Non sei sposata? Chiese.
No signora.
…………..
Dov’è tuo figlio?
Come?
Ho detto dov’è tuo figlio.
Non ne ho.
Il bambino, il bambino cantilenò la vecchia.
Non c’è nessun bambino.
Le peculiari caratteristiche di questo dialogo balzano subito all’occhio: mancano le virgolette che solitamente delimitano un dialogo dall’altro. Le parole delle due donne scorrono in contemporanea alle azioni compiute dalla terza donna che si trova nella stanza. Movimento e parola non possono essere scisse l’una dall’altra, la loro mescolanza e la contemporanea eliminazione di quasi tutti gli accorgimenti più propriamente specifici della scrittura narrativa, alludono ancora una volta al cinema e anche, nel caso specifico in modo più evidente, trattandosi di una scena che avviene in un interno, al teatro rappresentato sul palcoscenico.
CINEMA, TEATRO E LETTERATURA.
Se la scrittura narrativa di McCarthy è fin dalle origini impregnata di teatralità e di suggestioni cinematografiche, corre subito l’obbligo di dire in che modo lo sia, tema assai rilevante dal momento che anche molta narrativa contemporanea, specialmente italiana, s’ispira abbondantemente alla tecnica cinematografica.
Occorre, a questo punto, fare un minimo di storia dei rapporti fra letteratura e cinema.
Per un lungo periodo di tempo dopo la sua nascita, la settima arte ha saccheggiato la letteratura, facendo di alcuni grandi romanzi, il soggetto ideale per sceneggiature e film. Per alcuni di essi si è trattato di una vera e propria apoteosi: sono diciannove (otto delle quali in Italia), le pellicole che hanno per soggetto I miserabili di Victor Hugo, per non parlare di Guerra e pace, di Anna Karenina, dei Promessi sposi. La narrativa, maggiore o minore che fosse (pensiamo anche a I tre moschettieri, Il conte di Montecristo, La cittadella ecc. e così via), è stata un serbatoio inestinguibile.
La televisione, quella italiana con la gloriosa tradizione degli sceneggiati, curati da registi di prim’ordine e attori altrettanto prestigiosi, fu in passato uno strumento d’indubbia promozione del gusto letterario, nutrendo una generazione intera e influendo anche sulla vendita dei libri. Era abbastanza normale, poi, per i registi, rivolgersi agli scrittori per le sceneggiature. Tutto questo fino alla fine degli anni ’60. Dal decennio successivo in poi si assiste a un movimento in senso contrario, che raggiunge in tempi recentissimi il suo culmine. È il romanzo a rifarsi sempre più spesso al cinema e sono sempre più rari invece i registi che collaborano con scrittori: le coppie Cerami-Benigni e Handke-Wenders sono eccezioni, quello di Cristina Comencini, scrittrice e regista, un altro caso a sé.
Il primo in Italia a scrivere un romanzo con una tecnica molto vicina, forse troppo, alla sceneggiatura, fu Pasolini, con Teorema, nel 1969. Lo stesso Pasolini, con Petrolio, si accingeva ad approfondire quella strada con ben altra consapevolezza, purtroppo interrotta tragicamente dal suo assassinio.
Anche il nouveau roman francese, tuttavia, in anni precedenti, si era avvicinato al cinema. L’ècole du regard si poneva, infatti, come una poetica capace d’influenzare sia la narrativa sia la tecnica filmica: Jean-Luc Godard fu al tempo stesso un convinto assertore di quella poetica, ma anche colui che la sviluppò portandola fino all’esasperazione. Anche certe descrizioni estranianti del primo LeCleziò risentono di tali influenze e lo stesso si può dire del Calvino di Palomar.
Anche la narrativa di McCarthy rientra in questo percorso di avvicinamento al cinema, senza per questo ipotizzare un’influenza diretta da parte dell’ècole du regard o altri su di lui, anche perché i segni distintivi che lo rendono diverso sono troppo forti e decisivi.
McCarthy inizia il suo percorso ripensando al mito della frontiera, sfidando perciò il cinema statunitense proprio sul suo terreno, quello del genere western, il più holliwodiano per definizione, ancorato inoltre a quel segmento della storia d’America che affonda le sue radici in un mito tipicamente moderno.
In secondo luogo McCarthy accoglie della grammatica e della sintassi del cinema tutto ciò che può rendere ancora più essenziale la scrittura, togliendole ogni orpello non necessario o di gratuito ammiccamento al lettore.
Basta questo per indicare l’abissale differenza che separa il modo di accostarsi al cinema da parte di MacCarthy, rispetto alla deriva contemporanea, dove si cerca d’imitarne gli effetti speciali. Non parlo dei prodotti più dozzinali e di consumo che poco hanno a che vedere con la scrittura letteraria, mi riferisco, come esempio, a un solo romanzo altrettanto recente perché fra tutti è certamente il più dignitoso e il suo autore uno scrittore fra i migliori della sua generazione: il primo capitolo di Caos calmo di Sandro Veronesi.
Il crescendo che lo contraddistingue sembra essere preso di sana pianta dalla sequenza di venti minuti del primo Indiana Jones (non ha alcun’importanza che i temi siano diversi, anzi è un’aggravante.)
L’effetto di tale ritmo incalzante sul lettore è quello di togliergli sì il fiato, ma arrivati alla fine, l’insieme dei fatti narrati, la concatenazione degli stessi, assomiglia troppo al cliché del film d’azione e questo toglie tragicità alla morte di Lara, con cui il capitolo si conclude. Ne abbiamo viste a iosa di queste sequenze, ciò che conta è il paradigma. In Indiana Jones, dopo una serie di fughe, ammazzamenti, colpi di scena, acrobazie d’ogni genere, citazioni d’altri film, quando tutti sono finalmente sull’elicottero, accade che un finto serpente ricrei un momento di tensione ulteriore; si tratta, però, di uno scherzo (come se fosse normale scherzare in quel modo dopo una decina d’ammazzamenti e quant’altro), che getta una luce ironicamente retrospettiva su tutto ciò che è stato visto in precedenza. Era tutto uno scherzo, non soltanto quella parte finale, siamo dentro i recinti prestabiliti del genere avventuroso e con quella scena Spielberg ce lo ricorda; infatti, egli non vuole certamente proporci un film tragico.
Veronesi, invece, lo vorrebbe, ma la sequenza è talmente sovraccarica di colpi di scena che essa alla fine risulta tragicamente falsa, un escamotage che serve a traghettare il lettore verso il secondo escamotage: la scelta di Paladini, che decide di vivere nella sua automobile parcheggiata davanti alla scuola della figlia Claudia. Da questo secondo escamotage, si approda al terzo, (l’incontro con la donna salvata in mare, con prevedibile scena di sesso in differita.)
Nel mezzo si ha la sensazione che il romanzo proceda solo in attesa della scena madre successiva e che gli altri incontri, molti dei quali scontati peraltro, servano a riempire un vuoto.
FINZIONE E VERITÀ.
L’arte naturalmente è sempre finzione, ma secondo una nota definizione che mi permetto di parafrasare, c’è differenza fra una finzione che dichiara la verità e una che invece reitera la finzione stessa con una sequenza d’effetti speciali, il cui unico scopo è quello di intrattenere.
Naturalmente si può obiettare che tracciare una linea netta fra le due finzioni è difficile se non impossibile; tuttavia è possibile stabilire delle analogie, perché penso che ciascuno, intuitivamente, possa comprendere tale differenza, se posto di fronte a un esempio concreto.
Uno, antichissimo, di finzione che dice la verità è quello cui ricorre Omero nell’Odissea, quando Ulisse giunge alla corte di Alcinoo. Con la consueta astuzia, l’eroe rintuzza le indagini del re con risposte che eludono tutte le sue domande, ma proprio per questo generano in Alcinoo sospetto e anche irritazione. L’ospitalità è sacra, ma egli medita di scardinare le difese di Ulisse e una sera inscena un vero colpo di teatro. All’ennesima cena in onore del suo ospite, il re invita anche Demòdoco, un vecchio cantore cieco (come lo stesso Omero secondo la leggenda) che talvolta intrattiene la corte raccontando le storie dei greci. Ulisse, convinto in questo modo di perpetuare ancor meglio il proprio mimetismo, invita il cantore a raccontare la storia dell’assedio di Troia. Quando si arriva all’inganno del cavallo, però, posto di fronte non alla realtà dei suoi atti, ma alla finzione teatrale della loro messa in scena, Ulisse scoppia in un pianto dirotto e rivela d’essere colui che ha provocato quei lutti. Ecco qui all’opera un mirabile esempio di come la finzione possa avere un valore catartico e quindi di metamorfosi e verità. Infatti, dopo quel pianto Ulisse troverà la via spianata per il ritorno a Itaca: i venti che tante volte gli erano stati ostili lo guideranno verso casa; forse però non si tratta soltanto delle inclemenze del mare, ma delle sue tempeste interiori che finalmente si sono placate!
L’uso che McCarthy fa della finzione narrativa, specialmente nelle sue opere più grandi, quali La Trilogia della Frontiera e La strada, è analoga.
Nei romanzi Oltre il confine, Cavalli selvaggi, Città della pianura, egli rende feroce e prosaica l’epopea del West, attaccando la rappresentazione edulcorata fornita dal cinema holliwodiano: lo fa contrapponendole una parola scarnificata e anti epica e quindi anti eroica, che descrive fino al dettaglio più crudo, come avviene in questo passaggio tratto da Meridiano di sangue:
A ciascuna di quelle piccole vittime, sette anzi otto, era stato fatto un buco nella mandibola ed erano stati appesi per la gola ai rami spezzati di un mesquite. Fissavano senza occhi il cielo nudo. Calvi e pallidi e gonfi, come larve di un essere inimmaginabile…”. 2
Un altro autore, cui il nostro può esser accostato, è Faulkner, interprete magistrale delle perverse dinamiche delle relazioni fra bianche e neri nel profondo sud statunitense.
Vi è un personaggio che riassume in sé tutti gli altri della trilogia di McCarthy: quello del giudice, sempre in Meridiano di sangue.
Egli è un uomo che può infarcire i suoi discorsi di citazioni letterarie, addirittura tratte dai Vangeli o dalla Bibbia e che guarda il mondo degli umani dall’alto, come un eroe tragico dell’antichità. Infatti, è un capobanda che raduna intorno a sé, sbandati di ogni genere. Ambientato nella seconda metà dell’800, nella zona di confine fra Usa e Messico, il romanzo si basa anche su un ampio corredo di documenti ufficiali. Le azioni compiute della banda non servono alcuna causa, sono semplicemente l’espressione di una crudeltà che non ha scopi e non ne vuole avere, se non quello del proprio potere sadico sugli altri. La conquista della frontiera diviene qui un puro avanzare e saturare lo spazio, occupare il territorio, distruggerne ogni cultura precedente, a cominciare da quella dei nativi, fondarvi una legge che coincide e si esaurisce soltanto nella quantità di violenza e di terrore che è in grado di sprigionare. McCarthy crea così un personaggio anti eroico, ma lo fa individuando una strada radicalmente diversa da quella seguita da larga parte della narrativa novecentesca europea. Quest’ultima, infatti, ha cercato fino all’estenuazione l’irrisione, la parodia: ha sì smitizzato l’eroe, ma ha finito per rinchiudersi nella dimensione di un disperato nichilismo, a volte sarcastico, più spesso semplicemente irridente.
Con i romanzi Questo non è un paese per vecchi e successivamente con La strada McCarthy abbandona il West e compie un balzo temporale di duecento anni. Il primo dei due, tuttavia, non riesce nell’intento perché troppo didascalico: la trasposizione del paradigma della crudeltà dalla conquista dell’ovest all’America contemporanea (come a dire che le spietate regole di sopravvivenza sono ancora quelle), risulta un po’ forzata, espressione di una tesi troppo precostituita.
In La strada, invece, egli giunge alla contemporaneità con un percorso del tutto diverso, ma che ha a che fare ancora una volta con un genere, questa volta letterario.
In questo secondo caso si tratta del filone apocalittico o distopico che dir si voglia, di cui è piena zeppa la narrativa anglo statunitense del ‘900, a cominciare da Orwell e Huxley, passando poi per Golding (il Signore delle mosche), per approdare infine a Ballard, Burroughs, Le Guin, Dick), talvolta questo genere è stato proposto anche dal cinema, con esiti diversi e talvolta geniali come in Blade runner.
Nel romanzo di McCarthy, le caratteristiche salienti di questo genere letterario vengono portate alle estreme conseguenze, ma non perché l’autore ingigantisca gli effetti catastrofici o la loro rappresentazione espressionista, ma perché rovescia alcune convenzioni implicite o esplicite, su cui le opere degli autori citati erano basate. La prima di queste convenzioni riguarda il tempo.
L’orizzonte delle grandi distopie novecentesche è sempre il futuro (meglio ancora il futuribile), anche quando il tempo narrativo scelto è il passato remoto: in questo senso 1984 di Orwell è il testo più emblematico. Una seconda questione riguarda il rapporto fra catastrofe e
previsione scientifica. Ballard, che in Il mondo sommerso è forse l’autore che più si avvicina al McCarthy dei romanzi più apocalittici, spiega la catastrofe in termini tali (scioglimento delle calotte polari a causa delle radiazioni solari) da proiettarla inevitabilmente in un futuro indefinito, rinchiudendola al tempo stesso nel recinto del genere fantascientifico.
La finzione minima di cui si serve McCarthy è invece quella di dare per scontato che la catastrofe sia già avvenuta, senza spiegarne assolutamente i motivi: non vi è nulla nel romanzo, infatti, che ci possa fornire una qualche indicazione in proposito. La perentorietà dell’inizio (le prime due o tre pagine), che forniscono la chiave e danno il tono dell’intero romanzo, lo testimoniano in modo impressionante.
Una secondo elemento, combinato con questo, crea nel lettore, la sensazione di trovarsi dentro la vicenda e non proiettato in chissà quale tempo a venire. Consideriamo per esempio questo passaggio:
“La terra era sterile, erosa, sventrata. Acquitrini disseminati di ossa di creature morte. Mucchi di rifiuti indistinti. …Tutto senza ombra né contorni precisi. La strada scendeva in una giungla di rampicanti avvizziti. Una palude ricoperta da uno strato di canne morte. All’orizzonte una foschia cupa che permeava e cielo. Nel tardo pomeriggio cominciò a piovere e proseguirono tenendosi il telo sopra la testa, con la neve bagnata che sibilava contro la plastica.” 3
Il lessico comune, la sobria aggettivazione, la semplicità e brevità dei periodi, talvolta senza alcun verbo, ma semplicemente descrittivi (Mucchi di rifiuti indistinti) danno alla frase maccartiana un forte impatto comunicativo. Se isoliamo ciascuno dei periodi, come se fossero le inquadrature di una lenta sequenza girata in piano medio o americano, possiamo facilmente riconoscere in ciascuna di esse, scenari che abbiamo modo di osservare quotidianamente: è il loro lento accumulo che diviene inquietante perché sedimenta in chi legge un mosaico che assomiglia molto al mondo in cui già viviamo, ma ce lo fa percepire solo un po’ più grigio e uniformato alle sue punte più estreme di dissesto.
Anche i protagonisti che abitano questo mondo, a cominciare dai due più importanti e cioè il padre e il figlio, si trovano immersi in una socialità terminale, dove sono poche le azioni razionali che si possono compiere: incombe la necessità della sopravvivenza insieme a quella della difesa. In questo mondo ridotto all’osso si dispiega la vicenda straziante e tragica del viaggio dei due, fino alla sua conclusione. Il cammino intrapreso porta in direzione della California, cioè del sud e dell’ovest, dove era terminata la conquista e da dove prende inizio anche la narrativa di McCarthy.
Il finale, a mio avviso commovente, misterioso e catartico, segna un’altra evoluzione nel percorso dell’autore, ma non ne voglio parlare perché porterebbe il mio saggio ben oltre i limiti delle questioni di stile che volevo con esso porre al lettore.
Concluderò accennando solo brevemente e, a guisa di suggerimento di lettura, ad altre due opere che sembrano esulare dal percorso qui indicato ma che si pongono a mio avviso come una riflessione finale sulla vita da parte dello scrittore statunitense. La prima, Sunset limited, è più o meno
contemporanea a La strada (mi riferisco alla stesura non alla data di pubblicazione in Italia delle due opere). La seconda, ma in realtà precedente, è Suttrie, del 1979.
Sunset limited è un’opera teatrale che ha come protagonisti un bianco (nichilista) e un nero, che lo ha appena salvato da un tentativo di suicidio sotto il treno Tramonto limitato, traduzione letterale e quanto mai significativa del titolo inglese.
Suttrie, invece, è il nome di un protagonista che, dopo avere abbandonato una vita borghese di agi e anche i suoi tormenti religiosi, decide di vivere in riva a un fiume, in una capanna abbandonata. La sua compagnia sono gli animali che abitano il corso d’acqua e i suoi dintorni; non quelli più domestici, bensì i più primitivi: insieme a loro una pletora di sbandati di ogni tipo, compreso il buffo, paradossale e strampalato Harrogate, una figura a metà strada fra animalità selvaggia e umanità, che riecheggia nel nome la parola Arrogance. Nel fiume, nei suoi detriti, in coloro che ne abitano le sponde, sembra riversarsi, come in un grande lavacro, tutta l’epopea americana. Anche il viaggio de La strada, molti anni dopo, si conclude in riva a un fiume; lì la vita sembra pulsare come sempre, misteriosa e sublime al tempo stesso, ma non necessariamente per gli esseri umani.
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