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Pranzo di Natale

Sono oramai anni che i pazienti in analisi parlano dell’arrivo del Natale come di un impegno sociale che procurerà una serie di grattacapi, incombenze, vicinanza con familiari con i quali vi sono dissapori antichi; non ultimo problema è quello di dare senso e misura alle mille leccornie che molti, se non tutti, i commensali vogliono portare o preparare per il pranzo della vigilia o del giorno di Natale che sia. A prescindere poi da coloro che stanno facendo un’analisi, non è difficile cogliere, parlando con colleghi ed amici, come il pranzo di Natale sia un’incombenza e come si attendano, come reale soddisfazione, i giorni di vacanza che seguiranno (tema sul quale ci sarebbe pure da riflettere).

E’ importante capire come in un momento nel quale la famiglia – o gli amici – si raccolgono per festeggiare in modo conviviale una festività, si verifichi spesso lo sfaldamento proprio di quel tessuto connettivo che da senso alla riunione. Convivio significa in origine un essere insieme per discutere un tema: il titolo del dialogo di Platone Symposion è tradotto anche come convivio. Nella lingua italiana convivio è uno stare insieme banchettando, ma è importante cogliere che la radice del termine sta nello stare insieme rispetto al quale l’atto del mangiare diviene un rafforzativo sul modello del pasto totemico che accomuna i convenuti legandoli ad un patto di mutua solidarietà.

Anche il significato del cibo consumato merita una riflessione: nella parabola del figliol prodigo, nel Vangelo secondo S. Luca, il padre ordina che venga ucciso il vitello grasso perché si banchetti e si faccia festa: il cibo con il quale si fa festa è frutto del sacrificio dell’animale di maggior pregio. Il padre nutre i commensali perché qualcuno era perduto e si è ritrovato, dona quindi ai commensali qualche cosa che gli è prezioso perché se ne nutrano, lo facciano proprio e divengano quindi tutti accomunati da questa introiezione; il medesimo significato di una riunione della famiglia per festeggiare un evento lo troviamo anche nel banchetto che il vecchio Buddenbrook offre per inaugurare la grande casa che ha potuto acquistare con i frutti di un commercio abile e fortunato. Il banchetto è una comunione, come sanno o dovrebbero sapere, anche i cattolici praticanti; la sua celebrazione ha questo significato.

Il rovescio del banchetto conviviale passa per una trasformazione della mentalità di gruppo che trasforma per esempio il convivio in una riunione forzata a cui non ci si può sottrarre, ed il cibo, da simbolo gruppale, a ricercatezza alimentare. Le due cose sono fortemente collegate perché se il gruppo non si riunisce per una celebrazione condivisa, ma per un “festeggiamento” che non si può evitare, ciò che materializza il simbolo che accomuna per introiezione orale non è più nutrimento del corpo e della mente, ma ghiottoneria da consumare godendone.

Certamente oggi lo spirito commerciale del tardo capitalismo preme molto sul ribaltamento per il quale il cibo proposto per il Natale (il panettone milanese per esempio) non fa parte del festeggiamento accomunando i commensali anche con la sua ricchezza, ma la sua dovizia di elementi, la sua gradevolezza al palato è causa della festa: gli attori delle pubblicità non mangiano il panettone celebrando il Cristo che nasce, ma celebrano il panettone e ringraziano al più Cristo che, con la sua nascita, fornisce il pretesto per tanta ghiottoneria. Se la mentalità di gruppo diviene forma di costrizione, allora il cibo diventa la causa del festeggiamento: più il mondo si globalizza e le merci di tutto il mondo sono disponibili, allora alla tavola natalizia del bancario ci saranno i tortelli in brodo della tradizione insieme al sushi, il cappone con l’anatra laccata cinese, l’insalata russa e il cus cus, lo champagne e la coca cola e così via in un caleidoscopio di proposte rutilanti dove ognuno deve mostrare la sua originalità e la noncuranza dell’importo della spesa. Il banchetto non  ha più nulla di celebrativo e sacrificale, ma diviene un trionfo della pulsione orale e del suo carattere mortifero.

Marco Ferreri nel 1973 presentò un film che guardava al problema sotto questa angolazione e che si intitolava La grande abbuffata. Vi si narra la vicenda di quattro amici di mezza età con professioni solide e guadagni conseguenti che si riuniscono per mangiare: mangiare le più buone ghiottonerie preparate da loro stessi perché sono anche, per divertimento, provetti cuochi, e mangiare senza limite. Non si tratta più di soddisfare il gusto, ma di mostrare come il mangiare sia un antidoto contro le delusioni della vita che i quattro hanno pure avuto ed allontanare l’immagine della fine della loro vita non più collocabile in un domani lontanissimo e poco significativo. Mangiare significa vivere godendo e lasciare morire il proprio doppio che naturalmente non può sopportare una tale ingestione spropositata di cibo: contrariamente a quel che era avvenuto per Dorian Gray che aveva riacquisito la propria identità umana, di uomo invecchiato, morendo, riprendendola dal ritratto in cui l’aveva proiettata, i personaggi di Ferreri vengono accompagnati alla morte, inevitabile, attraverso altre leccornie. Non vi è l’ultimo respiro, ma l’ultimo boccone. Il gruppo dei quattro amici si riunisce perché in tutti loro aleggia uno spirito di morte ed il cibo diviene, sotto la sua gradevolezza invitante, qualche cosa che procura la morte soddisfacendo la pulsione orale che fa inghiottire qualsiasi cosa che appaia preziosa, buona, disponibile, abbondante: in un affresco di Taddeo di Bartolo del 1396, un avaro inghiotte a bocca spalancata le feci-monete d’oro del diavolo, nel film di Ferreri l’ultimo dolce ha la forma di grandi seni di donna che vengono mangiati a grandi cucchiaiate dal morente.

Naturalmente il ruolo delle immagini, come ci vanno ripetendo ogni giorno gli esperti di comunicazione, cioè i pubblicitari, hanno una grande importanza. Appare sintomatico che due cibi molto popolari, almeno nel nord del paese, quali sono il gorgonzola e la mortadella di Bologna, venissero un tempo chiamati, a Milano, la bistecca degli operai: sono cibi gustosi, danno calorie ed hanno un costo molto contenuto, appunto assai minore, almeno negli anni cinquanta e sessanta, di quello di una bistecca di manzo. Oggi un famosissimo chef presenta una fetta di gorgonzola con un gesto con il quale un gioielliere presenterebbe un diamante e ne garantisce la soavità con il proprio prestigio. Qualche anno fa un noto presentatore televisivo romano proponeva una grossa fetta di mortadella con un atteggiamento goloso, ingordo e, in un romanesco coatto, mentre si ingozzava, faceva un apprezzamento degno del più incallito borgataro.

Il cibo è una cosa buona e talora, si pensi al vino, all’olio e al formaggio, rappresenta uno straordinario prodotto di un lavoro millenario svolto sulla vite, sull’olivo e sulla pastorizia che costituiscono una parte di grande rilievo della cultura e della civiltà mediterranea. Ma le merci non vanno apprezzate, vanno prodotte, vendute e consumate.           


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