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POLITICA E ATTO di Giuseppe Perfetto

Relazione di Giuseppe Perfetto  sul libro di Chiara Colombini “Storia passionale della guerra partigiana”, Laterza, 2023.

Dal punto di vista della psicoanalisi, l’aspetto del testo che più mi ha interessato è quello relativo alle implicazioni etiche alla base della vita personale o “passionale”, per riprenderne il titolo, del singolo. Il libro di Chiara Colombini mi ha immediatamente riportato alla memoria “Una guerra civile“ di Claudio Pavone, libro del 1991. Sulla base della personalissima lettura del libro di Colombini non posso che vedere una linea ermeneutica che segue Pavone. Come già in  “Una guerra civile”, il focus si poneva sui moventi morali operanti nei protagonisti. In maniera differente alla storiografia più ordinaria, l’Autore portò l’attenzione sulle motivazioni, le aspettative, aspirazioni, illusioni e speranze dei combattenti partigiani, dove i comportamenti etici della persona risultavano dal confronto con il valore esistenziale della scelta, dal contrasto con il dissolversi delle istanze della Legge delle istituzioni, dai nodi problematici relativi a decisioni, anche violente, date dal rapporto con i membri del proprio gruppo in termini di fedeltà, tradimenti, ecc. Ed è secondo tale modello interpretativo della storia della Resistenza che tento una lettura del testo di Colombini, articolando un confronto con la psicoanalisi.

Mi pare che il “moto di passione” del partigiano, tema centrale del testo, sia ciò che in psicoanalisi orienta l’Atto. In Lacan l’Atto non è il semplice comportamento. Si riferisce ad una “azione”, anche simbolica, che segna un momento di rottura con la logica del desiderio e del godimento, nel quale il soggetto si assume la responsabilità della scelta e, in certo senso, afferma il proprio essere. L’Atto ha anzitutto un effetto trasformativo sul soggetto (dopo l’atto non si è più come prima), e modifica il suo rapporto con l’Altro. Lacan fa un chiaro esempio dell’Atto: quando Cesare varca il Rubicone. L’Atto traccia una precisa scansione esistenziale, segna un prima e un dopo. Leggendo Colombini, qui descritto c’è forse il caso più vertiginoso: l’uccisione dell’altro uomo, del nemico.

L’Atto è il gesto che impegna intimamente ed ha un effetto di soggettivazione. Si potrebbe azzardare una similitudine fra l’Atto di entrata in analisi e l’Atto di entrata nella vita del partigiano combattente. Per esempio, Franco Calamandrei, in una lettera ai genitori, scrive: “La vita che faccio, piena di attività e di contatti interessanti, mi dà, come non avevo mai provato così intensamente finora, il senso soddisfacente di essere dentro alla vita”. E giustamente, l’Autrice chiosa: “è una sensazione di pienezza esistenziale, di essere padroni di sé” (pag. 33).

Per Lacan l’Atto è principalmente una questione etica ancor prima di essere un fatto clinico.

L’Atto, nella sua dimensione etica, si lega a due significanti chiave che più volte si ripetono nel testo di Chiara Colombini: scelta e responsabilità.

Scelta anzitutto di sé: di ciò che si è scelto d’essere. Così, per esempio, nel libro i protagonisti della vita partigiana ne parlano in termini di “unica possibilità” (pag. 23), o di “esigenza della mia coscienza” (pag. 27)… vi son quasi degli echi heideggeriani.

L’Atto nel suo versante di responsabilità si esprime nel libro sia sul piano individuale, quale “senso del dovere” legato all’idea di sé, sia sul piano del collettivo, come responsabilità verso i compagni, il Partito, la società.

Ma parlare di etica significa parlare di Legge. Qui abbiano la questione morale, che ricorre nel libro, del porsi come “fuori Legge”. L’Atto del soggetto che si pone fuori o al di là della Legge. A questo livello, nel libro, c’è tutta la tortuosa questione che si pone il singolo rispetto alla pericolosità di una relativizzazione della Legge: di quale Legge si parla? La Legge di chi? Le Legge mia o dell’altro? Questo è un tema che Arendt ha trattato in “La banalità del male”. Il soggetto rispetto alla Legge dell’altro, dello Stato Fascista, si pone come “fuori Legge”: il che richiede un Atto di oltrepassamento: “una soglia da attraversare” come riporta l’Autrice (pag. 28). E aggiunge: “a rendere possibile questo passaggio è la convinzione che ciò che è legale non coincide con ciò che è eticamente accettabile. (…) è in queste circostanze fuori dall’ordinario che, per chi si impegna nella Resistenza, ha inizio una condizione esistenziale inedita” (pag. 28).

La questione morale che si pone è allora: se l’Altro della Legge cade, chi o cosa legittima il mio Atto? Colombini è chiarissima su questo punto: “Se decido di combattere senza che qualcuno (lo Stato, l’esercito) me lo ordini e se in questa situazione uccido, su chi ricade la responsabilità del mio gesto? Chi mi autorizza a stare nel ruolo che ho assunto? (…) la legittimità stessa della scelta di resistere, [è] una questione che Pavone ha saputo dipanare con chiarezza e profondità. Dal momento che prendono le armi volontariamente e senza alcuna coperture istituzionale, rifiutando l’ordine costituito allora incarnato dalle autorità tedesche e fasciste, i partigiani assumono su di sé, e su di sé soltanto, la responsabilità morale della violenza che esercitano” (pag. 87).

Si tratta di “rifiutare l’ordine costituito” per costruire un Nuovo ordine, una nuova Legge. Una nuova Legge che sia più vivibile per gli uomini. Una Legge che sappia accordarsi con il desiderio del soggetto (nello specifico del libro, anzitutto il desiderio di libertà). Una Legge che si fondi su un patto, su un nuovo patto collettivo. Emerge il desiderio di una Legge nuova che nasce dalla necessità di darsi “norme di comportamento” che hanno l’obiettivo di “imbrigliare la materia rovente” (pag. 111), come scrive Colombini, delle passioni. La frase colpisce, perché Freud, utilizza gli stessi termini, parlando di “imbrigliare le pulsioni”.

Concludendo con una lucida analisi personale di Roberto Battaglia: “Nati come fuorilegge, tendevamo per istinto a ritornar nella legge, ossia a creare un nostro codice di cui la responsabilità fosse comune, alle cui formule si potesse ricorrere nei momenti di incertezza. Come ogni altra cosa, anche l’uccisione o la vendetta erano lentamente e continuamente sottratte al criterio del singolo”. Colombini (pag. 114) scrive che “la questione etica di fondo che la resistenza deve affrontare” è la seguente: “rifiutata la legge imposta dagli occupanti e dalla RSI negandone la benché minima legittimità, e crollate le istituzioni dello Stato, [si] ha la necessità di edificarne una nuova e diversa per non scivolare nell’arbitrio”… o nel godimento, per dirla con Lacan.

 

 

 

 

 


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