PENSIERI SULL’EPIDEMIA ED EPIDEMIA DEL PENSIERO
C’è chi scompone in coppie di cifre l’anno 2020, sostenendo che sia l’anno della quarantena. Ovviamente lo dirà per sdrammatizzare, ma non si può escludere che qualcuno ci creda. Credenti nel misticismo o no, è in atto una pandemia, cioè un’epidemia su scala globale.
Nonostante sembri un problema che può essere affrontato solo dal sapere biologico, nel concreto è affrontato non meno dalla politica. In casi di epidemia, infatti, il modo di organizzarsi della società è strettamente legato a quelli che sono i saperi medici presi in considerazione, le informazioni che gli esperti possiedono e comunicano alle forze politiche e l’uso che queste ne fanno.
D’altronde, la cosiddetta medicalizzazione della questione sanitaria è avvenuta nel XIX secolo, come ricorda Frédéric Vagneron.[1]
In questo periodo si inizia a prendere atto del fatto che le malattie non arrivano solo dall’esterno, dalle terre straniere, ma anche dall’interno. Infatti, come ha mostrato Foucault, negli ultimi due secoli la medicina si è trasformata occupando un posto privilegiato nell’esercizio politico. Diventando quindi sempre più centrale nell’organizzazione della città, vista come un corpo sociale, “partecipa attivamente al controllo delle condizioni di vita delle popolazioni, dell’igiene pubblica, dell’alimentazione, dell’habitat, della pianificazione urbana. [Oltre che essere un agente del controllo sociale] la medicina moderna, prendendo in considerazione i fattori di rischio, ha infatti aperto la possibilità di una ridefinizione dello spazio sociale in termini di ambiente portatore di pericoli, allargando così il ventaglio dei controlli e rinforzando il riconoscimento potenziale di ogni individuo”.[2]
Ciò avviene con l’affermarsi di una logica produttiva, cioè diventa in effetti più importante poter assicurare una forza lavoro proficua e di qualità. [3]
Detto altrimenti si comprende come l’urbanizzazione e l’industrializzazione hanno degli effetti collaterali da dover governare: non sono “solo” i giustificati scioperi dei lavoratori per le loro condizioni lavorative, le loro resistenze, ma anche il malsano, la sporcizia della città. Si comprende, quindi, l’intimo legame che sussiste tra politica e biologia, tra politica e scienza, le quali danno vita alle politiche sanitarie e alle varie forme di igienizzazione del territorio.
Inutile dirlo, tanto più il progresso permette un miglioramento delle condizioni materiali di vita, quanto più può danneggiare. Non serve disturbare Freud del disagio della civiltà per ricordare che ogni cambiamento tecnologico cammina di pari passo con un costo, non solo economico, ma anche di felicità, come le guerre ci dimostrano ormai da lungo, troppo tempo. Tutto ciò veicola sentimenti, valori, influenzando le opinioni. Basti pensare al modo in cui viene presentato l’origine del male: spesso sono gli emarginati, i poveri, coloro i quali sono considerati come diversi, ad essere stigmatizzati pubblicamente. Ieri erano gli omosessuali, i drogati a portare la pandemia dell’HIV-AIDS, normalmente tocca ai migranti, i quali porterebbero un po’ di tutto, oggi è toccato ai cinesi con il Covid-19. Nonostante non vengano più presentati dagli “organi ufficiali” come l’origine del virus, molto è ancora l’odio che circola sul web verso di loro. Anche qui non serve scomodare il sapere psicoanalitico per ricordare che l’odio può scagliarsi contro ogni modalità di godimento che sia inconcepibile al proprio.
Inoltre, anche in un territorio in cui la sanità è pubblica e, quindi, formalmente per tutti, anche in questo caso, purtroppo, vi è chi si trova in corsia privilegiata. Non si tratta solo del vergognoso fenomeno che crea file d’attesa enormi negli istituti sanitari pubblici – sempre più maltrattati – che spinge molti a rivolgersi ai privati, per accelerare i tempi. Ma si tratta di quei soggetti che vengono quasi dimenticati, come se non fossero degni di attenzione. Come se a loro il problema non toccasse, o fosse di minore importanza. Le questione delle carceri in Italia mostra chiaramente come sussiste una forte disuguaglianza, la quale si aggrava in questi periodi. In Francia, la situazione non è migliore. Mentre il presidente della République invoca il senso di responsabilità e di solidarietà, assicurando che lo Stato non dimentica i precari e gli isolati, dimentica però chi è rinchiuso nelle istituzioni penitenziarie. Ci sono due tipologie di segregazione: una “volontaria”, atta a prevenire la diffusione del virus con l’evitamento dei contatti fisici tra persone, l’altra forzata, la quale al contrario rende fragili proprio perché racchiude troppe persone in uno spazio ristretto.[4] Si tratta di una situazione insopportabile già normalmente e anche per molti altri problemi, ma che diventa maggiormente intollerabile quando in corso vi è una pandemia.
In aggiunta c’è chi quattro mura e una stanza calda le vorrebbe, ma è costretto a stare in strada e, in molti casi, senza potersi nemmeno sdraiare su una panchina. Sarebbe poco decoroso!
Il sapere biologico, quindi, è estremamente legato a quello politico. Basta vedere come è stata gestita dai vari paesi questa epidemia globale, la pandemia appunto. In nome del sapere biologico, che si presenta come un tutto unitario, come un sapere che tende ad accumularsi con il passare degli anni, acquisendo sempre più conoscenza, ogni governo ha dato una propria risposta alla gestione del contagio. Da una parte c’è il modello della Cina, dall’altra quello inglese, che però sembra cambiare quotidianamente, avvicinandosi sempre più al modello adottato dai paesi come Italia e Francia. È chiaro, ci sono dei punti fermi, assodati che nessuno mette in discussione (al di là dei revisionisti che ovviamente troviamo ovunque), ma come ogni scienza che non vuole essere scientista, anche quella biologica ha in sé paradigmi che si contraddicono, che discutono entrando in dialettica senza aver certezze di sintesi. A questo va aggiunta poi la modalità di lettura che viene fatta da una determinata forza politica.
Basta soffermarsi sulla lettura anglosassone, nella quale risuona fortemente il pensiero neoliberale. Non sarebbe di certo una novità, dato che si tenta da anni ormai di inserire tutto in una logica imprenditoriale, partendo dalle istituzioni fino ad arrivare alla psiche. Non sono di certo gli unici, anzi, tale visione del mondo ormai la si ritrova un po’ ovunque. Sembra emblematica, però, la prima proposta che arriva dal primo ministro del Regno Unito, il quale intendeva far infettare il maggior numero di individui possibile, all’incirca il 60%, affinché si potesse arrivare ad una immunità di gregge, la quale porta alla fine dell’epidemia.[5]
Molto probabilmente sarebbe durata di meno, ma si sarebbe assistito ad uno scenario brutale, caratterizzato da un numero enorme di morti e pazienti gravi. In effetti, sembra in sintonia con la logica del mercato, dove il più preparato e perché no, il più produttivo ce la fa. In questa prospettiva, si sperava che i giovani, o comunque le persone in forma, se infettati, avessero aumentato l’immunità collettiva, costituendo, tra di loro, casi relativamente meno gravi.[6]Ma il modello sembra essere cambiato appunto, avvicinandosi a quello italiano, e si cerca di seguire, apportando comunque delle modifiche, la lezione cinese.
Quest’ultima ha messo in atto un estremo isolamento, tanto delle città che degli individui, per controllare l’epidemia, evitando la diffusione del contagio. Sembra proprio che il sistema amministrativo abbia funzionato efficacemente grazie alla collaborazione-sottomissione dei cinesi nei confronti delle procedure adottate. La storia, infatti, ha lasciato in eredità ai cinesi un’anima taoista con un abito confuciano. Non c’è nulla di mistico o esotico, ma vuol dire semplicemente che la prima spinge a non obbedire ciecamente, mentre la seconda alla riconoscenza del sistema gerarchico, della famiglia e dello Stato, il quale è capace di governare tanto gli umani quanto la natura.[7] Se questi due non si annullano, o non entrano in contraddizione, è perché sussiste un terzo, il PCC, che li mantiene in equilibrio. La questione politica cinese è complessa – si può dire lo stesso di qualsiasi paese – e sarebbe impossibile affrontarla per ovvie ragioni. Ma questo equilibrio incoraggia, non poche volte, i membri della società ad adoperarsi per poter raggiungere determinati scopi. Nel caso dell’epidemia, ad esempio, molti volontari si sono recati in ogni casa per misurare la temperatura di ogni cittadino.
Non si può negare che la Cina non sia riuscita nel suo scopo. D’altronde, senza voler minimizzare o sottovalutare il pericolo di un’epidemia, per i danni che può recare, non solo economici ma soprattutto alle vite, essa non ha una durata infinita. L’importante è riuscire a farle fare meno danni possibili. È dunque necessario saperla contenere e controllare. Anzi, molto probabilmente è proprio questa la parola chiave: controllo!
Questo, però, non riguarda solo l’epidemia, o meglio, anche se così fosse non conviene dimenticare che l’etimologia di “epidemia” vuol dire «che è nel popolo».[8] Controllarla, implica un controllo delle persone. Anche qui, i cinesi non invidiano nessuno! La loro rivoluzione digitale è tra le più imponenti. Questa ha contribuito non poco all’aiuto per il contenimento del virus. Le compagnie telefoniche, o determinate applicazioni sono state esemplari: tracciando gli spostamenti delle persone, queste hanno avuto la possibilità di sapere se, durante i loro spostamenti, sono stati vicini o in contatto con chi ha contratto la malattia. L’aiuto è innegabile, ma nessuno può essere tanto ingenuo da non vedere che ciò costituisce le fondamenta di una nuova riconfigurazione del controllo. Si può dire che il coronavirus ha permesso di mettere in risalto il sistema di sorveglianza cinese, un sistema che già prima dell’epidemia, quotidianamente, è utilizzato e perfezionato.[9] Se i cinesi non invidiano nessuno, gli americani, anche loro, hanno fatto scuola su ciò che oggi viene chiamato capitalismo della sorveglianza. In prima fila, infatti, si trova Google che, durante lo scoppio della bolla di internet, ha aumentato i ricavi pubblicitari utilizzando banche dati che erano inutilizzate, cioè le tracce digitali lasciate dagli utenti quando fanno le loro ricerche, al fine di influenzare il comportamento delle persone.[10] Chiaramente gli altri paesi non sono da meno, ognuno cerca di fare del suo meglio nell’utilizzo di tale tecnologia.
Tutta questa modalità di governare viene fuori, anzi si vede con più facilità, nei periodi in cui viene attuato lo Stato di emergenza. Previsto dagli ordinamenti costituzionali, viene attuato soprattutto in casi di epidemia. Nulla di non testato già in passato quindi. Per quanto però ciò sia previsto dagli ordinamenti costituzionali, non implica che tutto vada bene, come si può intuire. Non c’è solo un “fatto emergenziale” da dover risolvere, ma è essenziale che si controlli, dal basso soprattutto, che tale stato si limiti nel tempo. In poche parole, lo Stato di emergenza può tendere a durare nel tempo, intrufolandosi e modificando quella che è la “normalità” del quotidiano.
Anche se, quella normalità che c’era fino a qualche settimana fa, sana non era. Proprio per questo, molto probabilmente, si è inscenata una retorica che sembra gettare tutto il peso della responsabilità sui cittadini. Come se la colpa fosse di chi si fa una passeggiata in più con il cane. È ovvio, assembramenti di massa non si possono fare, ma di certo il male non si nasconde in chi decide di farsi una corsa in un parco o sul lungomare. Magari, non sarebbe più terapeutico riflettere su quelle scelte che hanno affievolito il sistema sanitario pubblico? Come sarebbe più terapeutico avere un welfare che dia garanzie uguali per tutti, come il reddito di quarantena – e perché no, un reddito di base?- , che nota e si prende cura di chi oggi non è tutelato, come i braccianti che contribuiscono alla produzione agricola, che assicuri un diritto al tetto. In ultimo, ma non per importanza, non sarebbe terapeutico pensare e trovare diritti che tutelino, che permettano di sapere dove vanno i propri dati e di decidere cosa farne?
Insomma, la normalità di qualche settimana fa non era proprio in salute. Più che puntare il dito alle singole persone, converrebbe politicizzare i problemi. Alla fine, ciò che prima si celava più facilmente in quella che era la normalità, con l’emergenza, appunto, emerge.
[1] Rouet R., Covid-19, Ebola, peste noire… nos sociétés face aux maladies, avec l’historien Frédéric Vagneron, in https://www.geo.fr.
[2] Bert J. B, Introduction à Michel Foucault, La Découverte, Paris, 2016, pp.36-40.
[3] Revel J., Le vocabulaire de Foucault, Ellipses, Paris, p.93.
[4] Didier F., L’inégalité des vies en temps d’épidémie, in https://www.liberation.fr.
[5] Sansonetti P., Covid-19, chronique d’une émergence annoncée, in https://www.laviedesidees.fr.
[6] Laurent É., L’Autre qui n’existe pas et ses comités scientifiques, in https://www.lacanquotidien.fr.
[7] Pieranni S., Cina e coronavirus, l’anima taoista e l’abito confuciano, in https://www.ilmanifesto.it.
[8] Epidemia, in http://www.treccani.it.
[9] Pieranni S., Le Coronavirus change tout : préparez-vous à la nouvelle hégémonie chinoise, in https://legrandcontinent.eu/fr/.
[10] Zuboff S., Il capitalismo della sorveglianza. Le aziende usano i nostri dati personali come merce da vendere e comprare. E le informazioni che accumulano gli danno un potere senza precedenti, in Internazionale, n. 1306, 10/16 maggio 2019.