Parole chiave

Written by Franco Romanò. Posted in Archivio seminari

anfiteatroSabato 16 marzo 2013 – ore 9.30/13.00
Associazione Culturale Punto Rosso
Via Gugliemo Pepe, 14
Milano (MM 2 Garibaldi)
Ingresso gratuito

Parole chiave

RELATORE: Franco Romanò

CONDUCE: Lorenzo D’Angelo


Negli ultimi venti anni, i cambiamenti linguistici e l’introduzione di nuove parole in sostituzione di altre sono stati molto vistosi. Analizzando alcune parole chiave e alcune espressioni entrate nel lessico comune è possibile intravedere , sullo sfondo dei mutamenti, il formarsi di un diverso senso comune.

Sintesi del seminario di sabato 16 marzo 2013

 

Relazione di Franco Romanò

Le parole non indicano semplicemente un oggetto concreto o astratto che sia, come sappiamo, ma alludono sempre a un contesto di riferimento e a un insieme di relazioni linguistiche e sociali. De Saussure è stato il primo a mettere a fuoco la differenza fra langue e parole, dove la prima designa il corpo tradizionale esistente in un dato momento, mentre la parole è il termine che nomina qualcosa di nuovo, sia esso un oggetto che prima non c’era (la macchina volante di Leonardo che diviene dirigibile e poi aeroplano), oppure indica un cambiamento sociale, l’affacciarsi di nuove scienze quindi di nuove metafore. La poesia metafisica inglese, per esempio, usando il linguaggio delle scoperte geografiche e considerando il corpo umano come un continente con le sue mappe, inventò una poesia completamente nuova e a sua volta anche il linguaggio più in generale ne fu successivamente informato. Vi è forse anche una trasformazione intermedia che ci riguarda molto da vicino: parole che ne sostituiscono altre fino a quel  momento usate, a volte completamente a volte solo in parte.

Negli ultimi vent’anni abbiamo esempi di tutti i tipi. Pensiamo a tutto il linguaggio connesso con la diffusione della rete o network e quello legato alla telefonia mobile o cellulare. Non mi occuperò di tutte queste trasformazioni: proprio per la ricchezza e anche la tumultuosità dei cambiamenti, era necessario delimitare il campo di indagine.

Un’ulteriore premessa. I cambiamenti linguistici in sé non possono essere giudicati, nel senso che bisogna prima di tutto prenderne atto, ma non sono ovviamente neutrali e vanno in direzioni talvolta opposte.

Comincerò dalla parola Turn over (sempre più italianizzata e pronunciata turnover), una delle prime a entrare nel gergo sindacale e politico in sostituzione di altre come avvicendamento del personale, sostituzione, ricambio ecc. Non ci fece caso quasi nessuno anche perché altre ben più pregnanti erano all’orizzonte; inoltre, la parola ha subito una rapida estensione al linguaggio sportivo, per cui oggi – quando si sente la parola turnover – o non ci si fa caso, oppure si pensa al calcio e alla necessità di far riposare alcuni giocatori fondamentali per la squadra quando ci sono appuntamenti importanti. Tuttavia, la parola aveva una sua importanza, tanto che la considero un termine di frontiera: da un lato, essa sottolineava la continuità di un fenomeno che era esploso dal secondo dopoguerra in poi e cioè l’introduzione sempre più frequente, nelle lingua italiana, di termini provenienti dal mondo anglosassone, che sostituivano rapidamente il francese, ma segnalava pure una trasformazione nel linguaggio sociale, sindacale e politico che sarebbe diventato di lì a poco vistoso con l’introduzione di una seconda parola chiave: esuberi.

Mi domandai fin dalla sua prima apparizione perché mai si stesse diffondendo questa parola, fatta propria senza troppi imbarazzi anche dal sindacato e dai partiti di sinistra. Esuberi si diffuse come termine sostitutivo di disoccupati, coesistendo però con il termine precedente, segnalando una rottura della continuità linguistica. Il disoccupato, o la disoccupata, sono soggetti senza un lavoro o in attesa di prima occupazione. Disoccupato è un termine che non appartiene solo al linguaggio economico, ma indica una condizione in cui storicamente si è identificato anche il movimento operaio e non solo il padrone: era una condizione di lotta e di ricerca di dignità tramite il lavoro e non di attesa passiva. Essere esuberi o in esubero significa altro.

Prenderò la cosa un po’ alla lontana e cioè dall’introduzione alle Lettere Luterane di Pasolini. Nella prefazione al testo, lo scrittore si rivolge a un immaginario ragazzo, con un discorso che più o meno suona così: caro Gennariello, se tu fossi nato cento anni fa avresti avuto molte probabilità di morire prima di raggiungere i cinque anni di vita, perché alta era la mortalità infantile fra le classi più povere. I progressi della medicina ti hanno invece permesso di arrivare a vent’anni, ma un’altra scienza diversa dalla medicina, ora ti dice che per te non c’è posto nel mondo, che tu non ci dovresti essere. La seconda ‘scienza’ (che metto fra virgolette naturalmente), cui Pasolini allude è l’economia capitalistica nella sua presunta scientificità.

Ecco la radice di una parola come esuberi, che non significa semplicemente non avere un lavoro, ma essere di troppo, cioè un ospite indesiderato in un mondo che non ti vuole. La parola esuberi fu una delle prime a segnare un crinale linguistico di fondamentale importanza: era il primo passo verso il ritorno di un’egemonia di classe nel linguaggio. Fino a quel momento, la terminologia marxiana e operaia aveva esercitato un’egemonia culturale, visto che anche un presidente di Confindustria era costretto a usare termini come mercato del lavoro, forza lavoro, scioperi e disoccupazione, che non esistevano neppure prima delle lotte operaie e dei partiti socialista e comunista. Alcuni di questi vengono ancora usati, ma ricordiamo che sempre più spesso lo sciopero è diventato astensione dal lavoro, che vuole dire tutt’altro.

La terza parola chiave che prendo in considerazione, contigua a esuberi, nel senso che anch’essa ha a che fare con il lavoro e di chi lo svolge, ma dal significato assai più esteso, socialmente e anche antropologicamente, è badanti. Il fatto che la parola sia spesso accompagnata dall’articolo determinativo femminile, non riflette solo il fatto che la maggioranza delle badanti sono donne (peraltro, se anche così fosse, la percentuale di personale maschile nel settore è molto elevata), ma apparentemente, almeno, anche un riconoscimento di genere; ma è proprio così?

Non credo. La parola badante, in realtà, segna un doppio scalino nel degrado linguistico, ma presenta degli aspetti di maggiore complessità rispetto a esuberi. L’espressione più comune in uso precedentemente per indicare la funzione e cioè donna di servizio, oppure cameriera (o cuoca) e maggiordomo per le famiglie abbienti, indicavano tutte una funzione sociale riconosciuta e anche in alcuni casi autorevole: basta ricordare i personaggi di famosi romanzi, ma anche storie vere di famiglie altolocate.

Certamente il termine servizio non è piacevole, anche perché ha subito uno slittamento semantico con il tempo, tuttavia la funzione si richiamava a un certo decoro. In che senso badante costituisce un doppio degrado? Da un lato è un termine asettico, che copre di un velo di indeterminatezza ciò che prima era più determinato e la possibilità di interscambio fra maschile e femminile, più che un’attenzione alla diversità di genere, sembra suggerire piuttosto la confusione asettica fra i generi.

Tuttavia, il secondo scalino di degrado è ancora più forte: il verbo che soggiace dietro il sostantivo è badare. Si bada al cane, allo scalino per non inciampare, al gap che esiste fra l’uscita dal treno di una metropolitana e la banchina, come ci ricordano gli avvisi in più lingue nelle stazioni. Badare a un individuo, a una persona, è qualcosa che dovrebbe suonare stridente e invece sembra di no, vista la diffusione del termine, nonostante i tentativi di uso di collaboratrice o collaboratore domestico, di certo assai più decorosi, ma meno di massa. Badare è una via di mezzo fra custodire e sorvegliare: non ha nulla a che fare con il prendersi cura. Nel momento in cui la funzione sociale della cura e dell’accudimento viene delegata nella maggioranza dei casi a extracomunitari, uomini e donne, ecco che la funzione sociale viene degradata con l’uso di un termine dequalificante; ma come sempre, nominando in modo degradato la funzione, la legge del contrappasso fa si che l’ombra del degrado si riverberi anche sull’oggetto cui badare, un essere umano con tutte le sue fragilità, più spesso anziano, ancor peggio se soggetto ad handicap.

Tuttavia, il campo che ha a che fare con l’assistenza, la cura, i servizi alla persona, è quello in cui, oltre al degrado linguistico, sta prendendo corpo in modo visibile una forma di resistenza linguistica molto forte. Cura, collaboratore o collaboratrice domestica, lavoro di cura, genere (ma di quest’ultima parola mi occuperò successivamente), indicano l’emergere di nuovi soggetti sociali, portatori di un loro linguaggio e approccio ai problemi. Tutti i termini ricordati provengono dalla cultura femminista o dalla riflessione di studiose anche non femministe (e recentemente anche di uomini), che sono la lunga scia dei movimenti degli anni ’70, ma che riflettono anche trasformazioni più recenti e problematiche del tutto nuove. L’attenzione al lavoro di cura o a quello domestico fu posto negli anni ’70 dai movimenti femministi ed ebbe una sua prima rivendicazione nel salario alle casalinghe, che suscitò un dibattito molto serrato. Da quello però sono scaturite poi la messa a fuoco del lavoro di cura e accudimento non pagato e non riconosciuto, ma anche nuove problematiche che riguardano la divisone del lavoro fra i generi, lo stesso reddito di cittadinanza; ma anche il modo di considerare la contabilità statale, la filosofia che ispira i bilanci pubblici, il modo di calcolare il Pil e altro. Insomma, il campo del lavoro domestico o più generalmente di riproduzione della vita e del suo habitat, è diventato anche linguisticamente, il terreno di una lotta fra parole diverse che indica il sorgere di tipi differenti di soggettività.

Vorrei fare un passo indietro e tornare ancora a un termine fra i più negativi e astrusi coniati recentemente, per fare poi una riflessione più generale. Il termine è esodati, una parola che si porta dietro anche una scia di grottesco.

Il termine di riferimento è esodo: addirittura si scomoda la Bibbia, ma ormai si sa che esistono anche l’esodo di agosto e quello del lunedì di Pasqua. Prima questione: sfido chiunque a capire immediatamente cosa significhi essere un esodante o un esodato-a. Occorre, per capirlo, avere seguito qualche dibattito televisivo, oppure trovarsi nella infausta condizione che il termine vorrebbe indicare. Tuttavia, penso che anche chi si trovi in tale condizione, per spiegarlo bene a un interlocutore, debba ricorrere a un discorso piuttosto lungo. Il termine, infatti, serve a nascondere uno scellerato atto di governo. Il degrado linguistico in questione è prèt a porter, nel senso che bisognava inventare qualcosa in fretta per una situazione cui si sta cercando in qualche modo di dare rimedio e che, se vivessimo in una situazione civile, sarebbe derubricata come una truffa pura e semplice.

A un numero consistente di lavoratori si è fatto credere che potevano andare in pensione e dopo aver fatto una regolare domanda si sono sentiti dire che non era vero, ma nel frattempo sono rimasti senza lavoro e senza pensione: che differenza c’è con il furto e con la truffa? Che differenza c’è fra questo e pagare una casa e poi scoprire che la casa non esiste? Nessuna e allora, ecco che invece di derubati o truffati (parole che chiunque capirebbe), i soggetti in questione diventano esodati-e o esodanti, termini che non spiegano nulla e che occultano tutto.

Se si può fare una considerazione generale sulla caratteristica di certi termini nuovi che hanno sostituito altri prima esistenti, è per me quella di occultare e rimuovere; lascio poi al dibattito esistente il decidere se in alcuni casi, il nuovo sia preferibile al vecchio. Un esempio per tutti: operatore ecologico invece di spazzino.

Qual è invece la caratteristica generale delle parole nuove o relativamente nuove che ho citato? Quello contrario di fare emergere qualcosa che era occultato, nascosto o non considerato.

Una parola forse le riassume tutte: la distinzione fra sesso e genere, l’imporsi della parola genere con un significato diverso dal precedente (genere umano per esempio),

per indicare il maschile e il femminile come portatori di culture e istanza diverse.

Infine le ultimissime arrivate: beni comuni (da non confondere con bene comune che indica solo la cialtroneria di chi ha usato questo termine con lo slogan per ammiccare a chi il termine beni comuni lo ha proposto con ben altro intento), coppie di fatto, banche del tempo, tutta la terminologia che si riferisce alla estensione dei diritti civili; per concludere, femminicidio, che vuole segnalare la specificità di un delitto. In alcuni casi come femminicidio, non sono termini del tutto nuovi specialmente in altre nazioni dove esistono già leggi specifiche, ma lo sono certamente per il contesto italiano.

Cosa si può dire come prima parziale riflessione conclusiva. La lingua è un campo di lotta, come altri campi e non meno importante di altri. L’attenzione o la disattenzione rispetto ai cambiamenti, subire passivamente i cambiamenti senza interrogarli, è un segno di subalternità culturale, mentre il rendersene conto e resistervi è altrettanto importante di altre forme di resistenza; così come è decisivo lo sforzo di usare parole che indicano il sorgere di nuove soggettività e comunità solidali.  L’attenzione all’uso del linguaggio, non deve avere a mio avviso una cura minore rispetto ad altre questioni che sembrano appartenere più direttamente e senza mediazioni al campo della politica. Penso che, riflettendo sui concetti gramsciani di egemonia e di rivoluzione intellettuale e morale, sia un modo di creare una cerniera virtuosa fra la tradizione delle lotte novecentesche e i nuovi problemi e i nuovi soggetti portatori di nuove istanze..

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Franco Romanò

Scrittore, critico letterario e poeta, è vicepresidente della Società di Psicoanalisi Critica. Ha pubblicato romanzi, poesie e saggi critici su varie riviste specializzate. Attualmente è condirettore della rivista “Il cavallo di Cavalcanti”.
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