”Pandemia e cambiamenti nella nostra identità personale e sociale” (Testo presentato il 14.05.22 alla Giornata COME LA PANDEMIA HA CAMBIATO IL SENSO DEL NOSTRO ESISTERE FOCUS SUL MONDO DELLA SCUOLA, organizzata dalla ASSOCIAZIONE CENTRO STUDI MARTHA HARRIS di Savona)
Hanna Segal (1992) affermava che gli psicoanalisti possono parlare in modo autorevole
non solo della cura dei propri pazienti, ma anche di contenuti attinenti a tematiche sociali.
Questo argomento è stato ripreso più volte dalla psicoanalista e la citazione compare
anche all’inizio del suo scritto “From Hiroshima to the Gulf War” (Papers 1972-1995
”Psychoanalysis, Literature and War”).
Freud nel suo fondamentale lavoro “Il disagio nella civiltà” del 1929 scriveva:
“Normalmente nulla è per noi più sicuro del senso di noi stessi, del nostro proprio Io”
(P.559, Vol. 10 Opere). In questo scritto, incentrato sullo studio psicoanalitico di importanti
temi sociali, politici e religiosi, Freud, nella parte iniziale, parlava del sentimento religioso
basato su un bisogno che deriva da un senso di impotenza infantile e da una nostalgia
paterna; precisava che tale necessità si incrementa nei momenti di maggiore angoscia.
In altre parole, quando l’Io si sente minacciato dal mondo esterno, si difende attraverso un
meccanismo che lo porta a desiderare un padre protettivo. Questo bisogno infantile si
risveglia ancor di più nei momenti di pericolo, quando l’umanità si sente minacciata da
forze oscure che non comprende e non conosce. Il nemico è all’esterno e bisogna stare in
guardia, proteggersi, diffidarne.
Tale atteggiamento può assumere la forma di una paranoia collettiva che limita o
addirittura annienta la capacità di pensare, di considerare la realtà in modo obiettivo, di
conservare un proprio punto di vista critico. Tutto ciò va a minare la nostra stessa identità
personale, ci confonde, e ci fa sentire inermi. Mette in crisi e coinvolge il nostro senso di
appartenenza alla comunità, limita e condiziona l’identità sociale, l’appartenenza a gruppi
e alla stessa comunità.
Nell’ultima parte del saggio Freud si interroga riguardo al conflitto tra la soddisfazione
del proprio piacere personale ed il bisogno di adattarsi alla comunità sociale poiché ogni
uomo civile desidera farne parte, domandandosi quanto debba sacrificare della propria
tendenza istintuale a raggiungere la felicità in nome di una necessità di civilizzazione e
di conformità al pensiero comune.
Quanto sottolineato da Freud ci permette di riflettere sulla faticosa operazione di
adattamento alle regole sociali, specie quando queste vengono imposte da eventi
eccezionali, come è stato nel caso della pandemia. Una situazione di allarme e paura,
come abbiamo visto, può far regredire gli individui ad una condizione di tipo paranoide
dove predominano aspetti persecutori.
La paranoia individuale, come ricorda Luigi Zoja, (p. 23, in “Paranoia”, (Bollati
Boringhieri, 2011) nel suo significato etimologico, si riferisce ad una mente che
“oltrepassa” il campo abituale del pensiero razionale. Quella collettiva ha a che fare con
un potenziale presente in ciascun individuo, come ci ha insegnato Melanie Klein quando
descrive lo stato mentale del lattante caratterizzato dalla posizione schizo-paranoiide
nei primi mesi di vita.
Penso che l’esperienza traumatica della pandemia, seppure amplificata da mass media
ed istituzioni, possa aver rappresentato un evento perturbante capace di scatenare una
tempesta emotiva nell’individuo e nei gruppi. Riprendendo ancora una volta le parole di
Zoja l’ambiente ha avuto, in questo drammatico frangente, il potere di “accendere” il
potenziale paranoico dell’individuo e, conseguentemente, dell’intera collettività (p.27,
Ibid.).
Sono passati più di due anni dall’inizio della pandemia e abbiamo assistito a fenomeni
collettivi molto forti ed evidenti: dalle scritte sui balconi “tutto andrà bene”, ai canti di
gruppo tra vicini di casa che magari non si erano mai conosciuti né incontrati prima, agli
slogan diretti agli operatori sanitari definiti e considerati come eroi. Accanto alla dovuta
condivisione delle linee di governo e delle conseguenti regole da rispettare, vi è stata
talvolta un’eccessiva identificazione con una posizione di rigore e controllo che ha reso
molti cittadini tutori dell’ordine e della disciplina alla stregua di poliziotti. Tutti noi abbiamo
assistito ad episodi in cui venivano fatti rimproveri a chi non indossava correttamente la
mascherina e ad altre manifestazioni di intolleranza. Il fare ricorso ad una massiccia
identificazione con l’aggressore sembrava rappresentare la soluzione più facile, e metteva
in luce la difficoltà nel poter assumere una posizione più tollerante e comprensiva (noi
diremmo una posizione depressiva). Come se la spinta ad una maggiore solidarietà
sociale fosse solo teoria, un meccanismo per nulla naturale nonostante la gravità del
momento.
Inoltre, un clima di paranoia più o meno evidente aleggiava e nessuno ne era totalmente
immune: per strada ci si guardava come persone potenzialmente pericolose, nemici da
tenere a bada, se non proprio da combattere, dai quali fuggire (noi diremmo che dominava
un funzionamento mentale di tipo schizoparanoide). In casa propria ci si sentiva protetti e
al contempo reclusi, come prigionieri che avevano ingiustamente perduto la propria libertà,
intrappolati all’interno della famiglia o nel rapporto di coppia, esiliati dai propri contatti
sociali, isolati in un piccolo mondo fatto di giornate sempre uguali, di spazi ristretti e tempi
assurdamente dilatati nella monotonia quotidiana.
Sembra interessante, ora più che mai, tornare a Bion e alla sua teoria sugli assunti di base
per meglio comprendere il funzionamento dei gruppi e della loro mentalità.
Il primo, quello di attacco e fuga è correlato alla paranoia che ci ha afflitto e ancora ci
contagia: il virus mi attacca e io fuggo, nel ritiro, nella chiusura e nell’isolamento. Osservo
e sto in guardia, allontano il nemico, mi proteggo dall’altro che diventa alieno, il virus è il
nemico da combattere, il pericolo è rappresentato dalla pandemia.
Il secondo, l’assunto di base dipendenza, è caratterizzato dal bisogno di rassicurazione
del gruppo che individua un leader dal quale dipendere, da cui ricevere nutrimento
materiale, spirituale, protezione.
Le caratteristiche del gruppo dipendente sono: grandi aspettative, attese magiche,
dipendenza assoluta da una figura carismatica.
Inoltre Bion ci ricorda che i gruppi che funzionano per assunto di base non sono interessati
a capire, cercano solo conferme delle proprie conoscenze e sono contrari all’uso di
qualsiasi metodo scientifico. Infine, si oppongono all’idea di formare gruppi di lavoro,
poiché ostili all’idea di poter essere coesi ed uniti, in nome di un preteso individualismo.
Com’è cambiata la nostra identità personale e come si sta modificando quella sociale?
Sono mutati il nostro modo di vivere, di muoverci, di abitare le città e gli spazi (anche quelli
aperti o nella natura), si sono modificate le relazioni amicali e sociali con un grande
impoverimento nella possibilità di avere un contatto fisico, un impatto con il corpo dell’altro.
Questi restano due grossi interrogativi ai quali né questo lavoro, né questa giornata di
studio hanno la pretesa di rispondere ma che si debbono porre per riflettere in modo critico
sull’esperienza che abbiamo vissuto e stiamo ancora vivendo, su come e quanto essa
potrà incidere in ambito sociale: su persone singole e coppie, su adolescenti e bambini,
anziani e soggetti fragili, già problematici.
Di fronte a questo cambiamento catastrofico, (purtroppo in un’accezione più negativa
rispetto a quanto lo intendesse Bion), si può cercare di resistere attraverso la forza del
gruppo di lavoro. Sono proprio i gruppi di lavoro (costituiti da insegnanti, psicoterapeuti,
cittadini) che, alimentati da spirito di coesione, capacità di riflessione e pensiero critico
possono riuscire a promuovere cultura e dibattito.
Dobbiamo guardare con particolare attenzione al mondo dell’infanzia, ai bambini, anelli più
vulnerabili della catena sociale, esposti lungamente a restrizioni e privazioni. Di loro si è
parlato poco, ancor meno, della scuola e del prezioso lavoro svolto dagli insegnanti.
Prendersi davvero cura dei bambini è il più importante compito civile della nostra
collettività.
Proprio per questo, la giornata di studio odierna ha lo scopo di dar voce non solo agli
psicoanalisti, ma soprattutto agli insegnanti per ascoltare la loro diretta esperienza, quella
dei bambini e dei loro genitori.
La Società di Psicoanalisi critica promuove lo studio, la ricerca e la formazione nel campo della psicoanalisi di Freud e di coloro che dopo di lui ne hanno continuato l’opera.
Vuole valorizzare gli aspetti teorici e clinici che fanno della psicoanalisi una scienza che indaga le forze psichiche operanti nell’uomo, in quanto singolo individuo e negli uomini, nelle loro aggregazioni sociali.
“Tutti i numeri dei Quaderni di Psicoanalisi Critica sono reperibili su ordinazione nelle librerie e disponibili presso la Libreria Franco Angeli Bookshop – Viale dell’Innovazione,11 – 20126 Milano.
Chi fosse interessato a ricevere uno dei volumi tramite posta può telefonare a Mariangela Gariano 3473696724”
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