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OMBRE ROSSE E REALTA’ NERE

letteredi Adriano Voltolin

L’operazione Ombre Rosse che ha portato all’arresto in Francia, e alla possibile estradizione, di una decina di ex appartenenti alle formazioni di sinistra che avevano dato vita alla lotta armata in Italia tra i primi anni ’70 e la metà del decennio successivo, merita più di una riflessione. Molti organi di informazione si sono precipitati ad affermare che finalmente è stata ristabilita la giustizia e che coloro che erano stati condannati potranno scontare la pena loro inflitta. Di giustizia si tratta quindi, non di vendetta. Anche la ministra della giustizia Marta Cartabia ha subito precisato che non si cercano vendette e che non si sarebbe assistito a scene francamente imbarazzanti per la loro grevità come quella a cui si era assistito all’arrivo di Cesare Battisti in Italia, quando un ministro della Repubblica era stato ripreso, trionfante, mentre aspettava che scendesse dall’aereo il reo in manette. Se la vendetta come motore della cattura e dell’estradizione è stata così energicamente negata, ovviamente dobbiamo pensare che in qualche modo sicuramente c’entri. La negazione, come ci ha spiegato Freud, mostra che vi è stata una parziale revoca del rimosso. La vendetta come motore dell’azione è un tema che non a caso ritroviamo in molti romanzi d’avventura che sono diventati molto popolari: Il conte di Montecristo di Dumas è forse il più celebre. Gli eroi di Emilio Salgari debbono vendicare la morte di fratelli maggiori o di padri traditi e poi uccisi, o anche debbono vendicare la patria invasa ed umiliata. L’urgenza di ristabilire un equilibrio tra il torto patito dal padre e la violenza che lo vendica ci dice quanto la vendetta appaia una normalizzazione, un modo per ristabilire una relazione divenuta squilibrata attraverso la legge del taglione: l’editto di Rotari aveva rappresentato un primo tentativo di superare la vendetta sanguinosa con il denaro del guidrigildo. Freud si rifà ad una sua esperienza personale per mostrare quanto la vendetta sia legata all’offesa subita dal padre: egli rammenta infatti il senso di rabbia e vergogna che aveva provato quando il padre gli aveva raccontato dell’umiliazione che aveva subita da alcuni gentili e del suo sopportarla senza ribellione. L’urgenza di vendicare è tipicamente legata allo stato mentale dell’adolescenza per il quale la vendetta del padre riequilibra la colpa del proprio tradimento consumato nell’allontanarsi dai propri genitori. La trasformazione da colpevole ad eroe, effetto indiretto della “giusta vendetta”, traspare però in modo molto più visibile quando il motore della vendetta non sta più nel padre offeso e tradito, ma nell’esigenza di affermare definitivamente come vera una verità alla quale è difficile credere. La punizione del reo non appare allora più come il compimento della giustizia, bensì come necessità che la giustizia sia ritenuta tale: è per questo, aveva sostenuto Walter Benjamin, che il popolo vede spesso nel grande fuorilegge un eroe che ne difende le parti: non tanto Robin Hood, quanto il Passatore, Carmine Crocco Donatelli, Domenico Tiburzi. La vendetta come affermazione della giustizia non rientra nel quadro psicopatologico del mentitore, quanto nel profilo arrogante di chi non solo impone il suo volere, ma ne pretende il riconoscimento, appunto, come giustizia. Era così il padre di Kafka che non solo non rispettava lui stesso le regole che imponeva ai figli, ma pretendeva che loro le riconoscessero come giuste. Il colpevole non rappresenta qualcuno che ha sbagliato e che perciò incorrerà in una pena, bensì è, con se stesso, la dimostrazione che la giustizia avviene, come è nella sua natura divina: la punizione non viene dalla legge, bensì è essa stessa nomos. La verità, diceva Bion, non ha bisogno, come la bugia, di un pensatore: essa si fa avanti senza pensatore, parla, sosteneva Lacan. La verità che la vendetta vuole sostenere è muta e deve essere sottilmente pensata. La vendetta esercitata da chi detiene il potere, o lo vorrebbe detenere, ha anche la funzione, di primaria importanza di manipolare chi vi assiste: essa fa riapparire, magari in forma mediatica, lo splendore del supplizio. Il corpo del colpevole torna a riapparire non più nascosto nel dispositivo della punizione (Foucault), ma come monito verso chi abbia commesso o voglia commettere quel reato. Quel reato è il reato. Non solo l’attenzione viene spostata su quel reato, ma la manipolazione consiste nel fatto che, nella percezione, altri reati o non siano tali o comunque abbiano un rilievo decisamente minore. Mettere in carcere qualcuno che mezzo secolo prima ha commesso un delitto e che poi ha vissuto una vita da cittadino irreprensibile corrisponde ad un atto nello spirito della Costituzione? Lo scopo della privazione della libertà è quello di consentire nel frattempo al condannato di ripensare ai propri errori per potersi reinserire nella società: se questo è avvenuto, quale è il significato di punire? Perché certi delitti, commessi e riconosciuti, richiedono una punizione esemplare senza tempo ed altri, come le cento stragi nere, i tentativi di colpo di stato, l’arricchimento criminale a spese o a danno della comunità, tutti reati riconosciuti come tali da tribunali della Repubblica, non paiono disturbare la serenità dei governi? L’estremismo che ha portato alla lotta armata negli anni settanta, non mirava affatto ad una modificazione profonda della società, del suo modo di produzione e della sua ideologia. Mirava alla sostituzione di una élite del potere (Wright Mills) con un’altra nell’illusione che la rivoluzione coincida con la presa del potere: la storia del ventesimo secolo, ma anche Gramsci e Freud, ci hanno insegnato che la realtà non è affatto questa. Il periodo storico che va dalla fine degli anni sessanta alla metà degli anni ottanta, quello in cui ha avuto un importante rilievo la lotta armata terroristica, ha prodotto paradossalmente una convergenza di idee tra chi aveva pensato di rovesciare la società con le armi e chi invece invoca(va) le armi come unica difesa dalla sovversione: la società, la sua struttura economica e di potere, la sua ideologia, non è modificabile. A nulla servono i dibattiti, le lotte di massa, la battaglia politica: solo le armi sono efficaci e chi vince si vendicherà di coloro che stavano dall’altra parte non per i crimini commessi, ma per il fatto che avevano scelto la parte sbagliata della barricata. In psicoanalisi la fantasia di avere sempre idee chiare, mira a tenere a distanza una catastrofe mentale, aveva detto Bion. Ma se questa fantasia assume le dimensioni di una cultura di gruppo, si va al di la del divano analitico: si è, ci ha detto Bollas, nel campo dell’ideologia di tipo fascista.

La Società di Psicoanalisi critica promuove lo studio, la ricerca e la formazione nel campo della psicoanalisi di Freud e di coloro che dopo di lui ne hanno continuato l’opera.
Vuole valorizzare gli aspetti teorici e clinici che fanno della psicoanalisi una scienza che indaga le forze psichiche operanti nell’uomo, in quanto singolo individuo e negli uomini, nelle loro aggregazioni sociali.

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