NARRARE LA VITA, FERMARE IL TEMPO; LE PARABOLE DI PASOLINI E IL NOSTRO TEMPO
La propensione di Pasolini per modi espressivi diversi dalla poesia prende forma e maggiore consapevolezza in un momento di crisi, di passaggio e confine; siamo alla fine degli anni ’50, la società italiana sta cambiando profondamente. Il poeta è convinto che la lingua della poesia italiana si sia irrimediabilmente deteriorata; lo dice qui e là in versi (In morte del realismo è del 1960)1 e in diverse interviste di quel periodo. In breve tempo, tuttavia, questa denuncia divenne soltanto il primo passo di una riflessione che sarebbe andata ben oltre la lingua di poesia per investire l’italiano come idioma nazionale.
Penso si debba partire da qui per capire certe scelte di Pasolini e anche la lungimiranza di intuizioni di cui ora vediamo tutta la nefasta portata.
L’Italia si stava trasformando in un paese industriale, la cultura stava per diventare di massa grazie alla scuola media unificata; infine la televisione, che occuperà un ampio spazio nella polemica del poeta.
Pasolini visse il cambiamento in modo drammatico; ma anche, probabilmente, come il reiterato presentarsi, nella vita sociale, del trauma dell’innocenza violata che aveva segnato profondamente la sua giovinezza. Prima l’uccisione del fratello Guido e poi lo scandalo del processo per omosessualità lo avevano allontanato da quel luogo materno e protetto che era la Casarsa delle sue prime poesie dialettali.2
Il romanesco divenne la lingua di un esiliato, ma anche un modo di ripararsi da un italiano che si andava corrodendo.
Pasolini e la tradizione del romanzo
In che rapporto si pone la narrativa pasoliniana con la tradizione del romanzo italiano?
Tralasciamo il ‘700, seppure esistano romanzieri italiani anche in quel secolo, perché la nostra narrativa nasce nell”800 intorno a due figure dominanti e ad altre due, anomale ma per nulla marginali. I due pilastri portanti sono naturalmente Manzoni e Verga, cui aggiungerei Fogazzaro e Nievo. Ciò che rende diversi questi autori, al di là del diverso valore delle loro opere, è la strategia linguistica. Manzoni, come sappiamo, inseguiva la purezza dell’italiano e si rivolgeva al fiorentino, la lingua che con la Commedia di Dante si era imposta nel ‘300 come lingua nazionale. Il curioso, sta nel fatto che Dante, nel De vulgari eloquentia, affermava che la lingua italiana poteva nascere solo cogliendo fior da fiore, le espressioni e il lessico migliori di ciascuna delle tradizioni dialettali: un programma ben diverso da quello di Manzoni.
Verga, grazie alla lezione preziosissima degli Scapigliati, con i quali entrò in contatto durante il suo periodo milanese, scelse invece di portare la ricchezza del dialetto a contatto con la lingua italiana. Fogazzaro e Nievo lavorarono sull’appartenenza regionale (quanto alle tematiche), oppure anticipando le inquietudini della soggettività novecentesca (Fogazzaro), stando però dalla parte di Manzoni per quanto riguarda la lingua.
La narrativa successiva ha seguito più o meno questi grandi modelli e Pasolini appartiene alla schiera di coloro che hanno nutrito la lingua italiana degli umori dialettali, ma con due peculiarità.
Prima di tutto egli lesse Dante non come il sussiegoso e accademico fondatore della lingua italiana, ma come il poeta del discorso libero indiretto, della contaminazione fra registro alto e basso; in una parola, il Dante più espressivo e addirittura espressionista.
In secondo luogo, Pasolini era convinto che la lingua dei borgatari romani (ma il discorso vale per tutti gli idiomi regionali o locali), potesse essere conservata in quanto tale con tutta la sua ricchezza, come unica traccia d’innocenza resistente al dilagare della modernità. Lui stesso dovette rendersi amaramente conto che questo non era possibile. Il neocapitalismo italiano degli anni del boom economico e di quelli successivi, avrebbe al tempo stesso integrato parzialmente e disaggregato le culture regionali e locali, incidendo profondamente nel tessuto agricolo, distruggendo la piccola proprietà a favore di un’agricoltura intensiva. I borgatari romani come altri esponenti storici di una malavita povera e tutto sommato innocua (la ligera milanese non era molto diversa), diventavano i manovali del grande crimine organizzato, oppure venivano relegati ed emarginati nel ventre della grande città, perdendo quell’alone romantico che Pasolini vide in loro.
Pasolini narratore
Parlare della narrativa pasoliniana vuole dire imbattersi subito in una difficoltà: è impossibile farlo prescindendo dalla sua cinematografia. Non bisogna mai dimenticare, oltretutto, che Pasolini è stato un artista totale, che ricercava il proprio stile attraversando i confini che separano i generi; assomigliando di più, in questo, a un artista rinascimentale piuttosto che a un contemporaneo.
Cosa cercava Pasolini nella narrativa e poi nel cinema? In primo luogo, una maggiore aderenza alla realtà sociale in trasformazione. Gli sembrava che lo strumento narrativo e successivamente quello cinematografico fossero più adatti della poesia a testimoniare la presenza di un mondo che stava finendo e di cui egli voleva conservare la memoria. In fondo, Pasolini inseguiva lo stile più consono a esprimere un realismo che definirei arcaico, teso a cercare ovunque le tracce delle civiltà sostanzialmente rurali che vedeva tramontare qui dove noi viviamo e che lo portava sempre più lontano dal cuore del mondo occidentale, sia nello spazio, sia indietro nel tempo. L’odore dell’India, un diario del viaggio in India che lo scrittore fece insieme con Moravia, lo stesso poema La Guinea in Poesia in forma di rosa, sono altrettante tracce di questo percorso che diventerà più esplicito e compiuto nella cinematografia.
Detto questo come premessa, possiamo ora avvicinarci direttamente alla narrativa pasoliniana, nella quale possiamo individuare due momenti distinti, mentre una valutazione a sé, invece, meritano due romanzi postumi: Atti impuri, Amado mio, mentre Petrolio stava aprendo una terza fase della narrativa pasoliniana, purtroppo troncata dalla sua morte.
Ragazzi di vita e Una vita violenta nascono dalla convinzione, rivelatasi poi fallace, che il mondo linguistico delle borgate romane fosse destinato a conservarsi nel tempo con la sua innocenza.
Quali le caratteristiche salienti dei due romanzi pasoliniani? Prima di tutto proprio lo stile, la lingua e anche la struttura del romanzo. Partiamo da quest’ultima.
Sia Ragazzi di Vita sia Una vita violenta, non hanno una vera e propria trama nel senso tradizionale del termine. Lo sviluppo della narrazione, infatti, focalizza in presa diretta la vita di un gruppo di giovani che abitano nelle borgate romane. Si tratta di esistenze che non hanno chiari punti di riferimento; frammentarie per definizione, fra un fatto e un altro, un incontro e un altro, che costellano le loro giornate, non vi è spesso alcun nesso. È lo scorrere del tempo sempre uguale a scandire una struttura narrativa che in realtà si sfalda nell’inconsistenza. Tommasino, il Cagone, anche Accattone, oppure il memorabile Stracci del film La ricotta e tutti gli altri personaggi dei romanzi, non sono però dei romantici deracinès o degli arrabbiati, da bohème piccolo borghese come nelle commedie o nei drammi coevi di Osborne e Wesker, né assomigliano al prototipo ben rappresentato da James Dean nei film che avevano per protagonista la cosiddetta gioventù bruciata; tanto meno sono dei beatniks mediterranei. Tutti questi che ho ricordato erano integrati dalla grande città, da cui a volte sognavano di fuggire, ma che non smetteva di essere il loro habitat naturale. I borgatari di Pasolini sono sottoproletari, la cui condanna all’emarginazione sociale è data per definizione, come un fato. Essi sono l’ultima generazione sottoproletaria italiana; dopo di loro saranno gli immigrati o i tradizionali popoli nomadi come i Rom a rappresentare questa parte della società, anche se oggi assistiamo a un fenomeno di regressione e di emarginazione progressiva anche di fasce sociali indigene, dovuto alla crisi sociale ed economica ormai endemica.
I protagonisti dei romanzi di Pasolini sono dunque gli esclusi dal boom, l’esubero di una società che integrava ancora la maggior parte di coloro che si affacciavano alla vita e al lavoro.
La struttura di queste opere, aderendo alle loro vite, è aperta e frammentaria e dunque entro i canoni della narrativa novecentesca europea, che aveva, per altre ragioni, inflitto un colpo decisivo alla saldezza della trama. Tuttavia, Pasolini non sembra del tutto consapevole di inserirsi nell’alveo di questa tradizione; la sua non è una scelta che nasce dalla riflessioni sul romanzo europeo del ‘900, ma aderisce a un’esigenza interiore e ambientale.
Quanto al linguaggio esso è fortemente espressionista, pieno di irruzioni del dialetto come già è stato rilevato; i dialoghi sono in presa diretta con la lingua parlata povera delle borgate; ma anche quando scendono in città e si avvicinano a sedi istituzionali (un cinema, la sede del MSI o del PCI e altro), questi personaggi mantengono la loro totale estraneità rispetto alla città degli altri, tanto che quando s’imbattono in qualche persona che si aggira nel centro di Roma e capita loro di parlare, la lingua cambia perchè cercano di esprimersi in italiano stentoreo, hanno nei confronti dell’interlocutore un atteggiamento di imbarazzata deferenza, che tradisce la sudditanza culturale. Come nella successiva metafora del Palazzo, l’urbe rimane per questi personaggi una specie di geroglifico incomprensibile, dal quale rimangono distanti. Pasolini, come ho già osservato, si renderà amaramente conto (e pagherà di persona questa trasformazione) di come in poco tempo quel mondo diventerà corrotto e preda della grande criminalità: la banda della Magliana non nasce forse in quegli anni?
Petrolio
Prima di entrare nel merito dell’opera vorrei dedicare qualche parola sul finto mistero delle 600 pagine trafugate, oppure (secondo un’altra versione del medesimo mistero), quella del capitolo smarrito.
Graziella Chiarcossi ha definitivamente chiarito la questione. Questo capitolo semplicemente non esiste e i furti a casa Pasolini sono stati due, regolarmente denunciati, ma il cui bottino consiste in gioielli e denaro rubato, ma non manoscritti. Chiarcossi chiarisce in modo limpido anche il perchè del suo lungo silenzio. L’intervista in questione risale al 2014, ed è stata recentemente ripubblicata dalla rivista online Doppiozero e anche sul blog Agenda di scrittore. A quel testo rimando per un chiarimento definitivo della questione.
Questo non significa che tutti i misteri intorno alla sua morte siano chiariti, ma penso sia necessario lasciare alla magistratura la possibilità (se ancora esiste) di arrivare più vicino alla verità dell’accaduto e dare la priorità al Pasolini scrittore e intellettuale. Del resto Petrolio, anche senza la favola del capitolo mancante, rimane pur sempre un testo contundente e drammatico, che non ha bisogno di ulteriori aloni.
Nelle intenzioni di Pasolini, quest’opera avrebbe dovuto aprire quella che ho definito una fase nuova della sua narrativa. Lo afferma lui stesso nella lettera a Moravia in cui annuncia al suo sodale questa intenzione. Si tratta di un documento molto importante e lungo, che fa parte dell’opera, proprio per l’intenzione dichiarata di mescolare narrazione a saggistica. Ancor più, mi sembra che proprio in questa pagina e mezza che andrebbe letta per intero3, Pasolini imprima una svolta decisiva alla propria consapevolezza di autore. Abbandonata la spontaneità e l’adesione immediata al proprio dettato interiore e ambientale che caratterizza i romanzi di borgata, in questo documento egli fa davvero i conti con la tradizione del romanzo novecentesco, partendo dal rifiuto della pura e semplice narrazione: “Ora io a questo punto, potrei riscrivere daccapo tutto il romanzo, oggettivandolo… e assumendo le vesti del narratore convenzionale… Potrei farlo…ma se lo facessi avrei davanti a me una sola strada: quella della rievocazione del romanzo…”4.
La dissoluzione della trama narrativa tradizionale è un leit motiv del romanzo novecentesco e in questo parole Pasolini dimostra di averne assunto in pieno la lezione e in modo assai radicale, tanto che Petrolio può essere definito un anti romanzo.
La strada che lo ha portato a questo approdo, tuttavia, è ancora una volta quella del cinema. Se si legge la scaletta dell’intero romanzo ci si rende conto subito come essa sia uno scritto assai prossimo al trattamento di un soggetto cinematografico.5.
Petrolio è, per questa ragione, un romanzo incompleto, ma molto meno di quanto normalmente si pensi. Non mi riferisco solo alle parti già lavorate più volte e che si possono definire quasi definitive o del tutto definitive, come per esempio gli appunti 34 bis e il 55 (Il pratone della Casilina), ma perché il romanzo è programmaticamente incompiuto, o meglio, la sua voluta frammentarietà è la cifra stilistica che Pasolini ha scelto per rappresentare un affresco della dissoluzione. Del resto, sarebbe bastato prendere sul serio l’incipit della prima pagina, che è al tempo stesso una dichiarazione di poetica e una parte dell’opera:
“Tutto Petrolio (dalla seconda stesura) dovrà presentarsi sotto forma di edizione critica di un testo inedito (considerato opera monumentale, un Satyricon moderno.) Di tale testo sopravvivono quattro o cinque manoscritti, concordanti e discordanti, di cui alcuni contengono dei fatti, altri no ecc. La ricostruzione si vale dunque del confronto dei vari manoscritti conservati (di cui per esempio due apocrifi, con varianti curiose, caricaturali, ingenue o ‘rifatte alla maniera’)…”
Non c’è davvero altro da aggiungere.
- Il testo si trova all’interno de La religione del mio tempo e ne chiude la seconda parte. Imitando il famoso monologo di Antonio nel Giulio Cesare di Shakespeare, Pasolini pronuncia l’orazione funebre della stagione neorealista. In: Pier Paolo Pasolini, Le Poesie, Garzanti, Milano 1976, p.283-89. [↩]
- Mi riferisco a La meglio gioventù, pubblicata nel 1954. [↩]
- PP. Pasolini, Petrolio, Einaudi, Torino 1992, lettera a Moravia, pp. 544-5 [↩]
- ivi [↩]
- op. cit.: è sufficiente leggere la sola pagina 5 del testo einaudiano e la sequenza degli appunti per comprenderlo [↩]