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L’impatto del movimento femminista sulla pratica politica e il suo linguaggio

letteredi Franco Romanò

Premessa

Se pensiamo ai movimenti nati alla fine degli anni ’60 in tutto il mondo occidentale e ancor più agli sviluppi successivi durante tutto il decennio ’70, è facile che vengano alla mente certi slogan emblematici. Alcuni di essi riprendevano, attualizzandoli, questioni basilari della teoria marxista (per

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esempio Lo stato borghese si abbatte e non si cambia), altri avevano debiti più complessi con lo stesso marxismo (nel senso che ne riprendevano elaborazioni provenienti dalle correnti più eterodosse), oppure si avvalevano di apporti culturali più vasti; altri ancora, suonavano del tutto originali e nuovi. Ne ricordo due, anche se poi mi occuperò di uno soltanto di essi: la non neutralità della scienza e il personale è politico.

In entrambi i casi, ci troviamo di fronte all’irruzione di tematiche nuove, rispetto a quelle da sempre oggetto dell’azione politica. La scoperta che la scienza non è neutrale neppure nelle sue procedure apparentemente più deterministiche appartiene fin dalle origini ai movimenti nati intorno al 1968, mentre lo slogan il personale è politico nasce insieme a un movimento completamente nuovo; quello femminista. Dico nuovo perché, nonostante tutti i riferimenti storici che si vogliono ricordare e che risalgono fino alla Rivoluzione Francese e al tentativo, stroncato con le ghigliottine, di affiancare alla dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo una dichiarazione universale dei diritti delle donne, rimane il fatto che i movimenti femministi occidentali degli anni 60-70, nascono all’insegna di una triplice rottura con le tradizioni precedenti dei movimenti di liberazione.

La prima

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è proprio con il movimento di emancipazione femminile a cavallo dei secoli diciannovesimo e ventesimo. La seconda rottura è con la teoria marxista intorno a due questioni fondamentali: il rapporto fra struttura e sovrastruttura e ancor più la priorità dell’oppressione di genere sull’oppressione di classe e quindi la denuncia del patriarcato come struttura di lunga durata che copre diverse società classiste.

Lo slogan Il personale è politico, tuttavia, mette in circolo anche un’idea ancor più complessa ed estesa di politica, che si pone come una novità in senso quasi assoluto, non perché nasca dal nulla, ma perché la metabolizzazione o se volete il distillato di apporti diversi provenienti sia dalla cultura psicanalitica, sia dall’antropologia, sia dallo stesso marxismo, vengono poi fusi e mescolati in un modo tale che il risultato è nuovo e originale, anche perché chi se ne fece promotore era un soggetto politico determinato e non semplicemente un movimento di opinione .

Il personale è politico

Quale impatto ha avuto nel tempo l’insorgenza del movimento femminista sulla politica e il suo linguaggio? Anticipo le conclusioni, venendo del

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tutto meno alla regole della suspense: l’impatto è stato scarso o quasi, con diversità ambientali (anche notevoli), fra i paesi occidentali; ma se prendiamo come paradigma di riferimento ciò che i movimenti femministi, pur nella loro diversità, ponevano come istanze fondamentali del movimento (la liberazione e non della semplice emancipazione), cui se ne affiancava una seconda e cioè la necessità di modificare i paradigmi dell’azione politica, intaccando quelle che sono le strutture della lunga durata, il nesso produzione-riproduzione, bisogna dire che i femminismi (uso il

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plurale tenendo conto delle diversità talvolta grandi esistenti), sembrano sconfitti. Tralascio per il momento di considerare tutta una serie di diritti reali che le donne hanno conquistato perché vorrei rapportarmi ai punti alti del femminismo, alle sue istanze più forti e misurare l’impatto avuto sulla vita sociale e politica rispetto ai quei punti alti, non genericamente rispetto al fatto che le donne godono di maggiore libertà sociale rispetto a decenni fa.

Ho usato un termine forte e un po’ provocatorio come sconfitta politica del femminismo per dire subito dopo che il giudizio diventa più problematico se lo proiettiamo nel tempo più lungo della storia e non semplicemente in quello ristretto dell’azione politica che lavora su tempi brevi. Ancor più se teniamo conto che, invece, il femminismo ha largamente inciso, come altri movimenti di quegli anni, sul costume e su tutta una serie di aspetti che riguardano la sovrastruttura, la cultura materiale e il senso comune. Vorrei tornare, però, anche sul termine sconfitta e cercherò di chiarire meglio entro quali limiti la intendo, servendomi

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di un’analogia.

Quando il mio insegnante di storia mi riassumeva quanto accaduto in Europa dalla Rivoluzione Francese fino al congresso di Vienna, concludeva la sua panoramica dicendo che il 1815 sanciva la vittoria della restaurazione europea o addirittura della reazione sulle istanze rivoluzionarie: in sostanza un ritorno all’ancien règime. Subito dopo, tuttavia, era costretto a precisare meglio, che le istanze rivoluzionarie avrebbero portato si risorgimenti europei e non solo a quello italiano, ma ancor più avrebbero minato alla radice gli imperi centrali e quello zarista stesso, che sarebbe crollato meno di cento anni dopo. Allora, non era così vero che il congresso di Vienna aveva sancito un ritorno al passato tout court, la questione era assai più complessa e lo è altrettanto se consideriamo il movimento femminista.

Prima considerazione: i modelli patriarcali sono in crisi in tutto il mondo, ancor più laddove sembrano dominare: ritengo in fatti che la repressione feroce e violenta dei movimenti talebani contro i diritti delle donne, sia un segno di profonda debolezza e non di forza, sebbene abbia delle conseguenze gravissime per le vittime che subiscono la repressione. Non a caso la repressione è più cruda e violenta in Afghanistan e Algeria dove le donne erano state protagoniste di primo piano, vuoi nella lotta di liberazione nazionale (Algeria), vuoi per avere goduto nel decennio e più di governi comunisti di diritti civili ben più ampi che in qualsiasi altro paese musulmano. Basterebbe questa semplice constatazione per limitare la portata del termine sconfitta da me usato, ma c’è dell’altro. Basta aprire il computer e girare un po’ in rete e la quantità di dibattiti, tavole rotonde che hanno come argomento centrale il padre e la sua scomparsa come figura sociale forte, si contano a decine.

A un modello in crisi, però, non ne segue un altro in grado di normare in modo il rapporto fra la sfera domestico-personale-famigliare e la regola sociale. Eviterò di usare il termine transizione, a questo punto, perché ormai si tratta di una parola buona per tutti gli usi e nulla dicente di sostanziale. Se mai, quello che appare visibile in superficie, è la compresenza di comportamenti sociali e individuali che oscillano fra la nostalgia di regole certe e conosciute, la paura del nuovo, il tentativo di fondarne altre: una situazione di apparente caos sociale, rispetto alla quale ci sono diversi tipi di risposta istituzionale e non.

A un primo livello di sintesi, si potrebbe dire che i movimenti femministi, come tutti gli altri nati nel corso degli anni ’60-70, hanno influito in modo significativo sulla cultura e il costume, ma non hanno saputo aggredire i rapporti sociali di produzione e riproduzione. I motivi di questa scissione sono molti e complessi e andranno visti in un contesto più ampio: quello della globalizzazione finanziaria.

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