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Società di Psicoanalisi Critica » L’HARTMAN DI VARESE

L’HARTMAN DI VARESE

Written by laura. Posted in Articoli, homepage

letteredi Adriano Voltolin

In un passaggio di uno scritto relativo alla guerra nel Golfo, Hanna Segal affermava, riferendosi a Tony Blair e a George Bush jr., che era incredibile come atteggiamenti che sarebbero parsi francamente patologici in un cittadino qualsiasi, non apparissero più tali quando li si vedevano in un personaggio politico di un qualche rilievo; si riferiva al fatto che il presidente statunitense ed il primo ministro britannico, dopo aver ammesso che le armi atomiche Saddam Hussein non le aveva mai avute e che loro lo sapevano, non solo avevano mandato in guerra i loro soldati e fatto morire sia i loro che quelli di Saddam, ma chiedevano anche di essere premiati per la loro azione con la rielezione, puntualmente poi avvenuta.
Il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, in questi giorni di restrizione dei cittadini al proprio domicilio per sconfiggere il coronavirus, fa ricordare quel meccanismo messo in rilievo dalla psicoanalista inglese e agito, allora, da due politici di ben maggiore importanza. L’imposizione a tutti i lombardi di indossare la mascherina quando debbono uscire, o comunque qualcosa che copra naso e bocca, sembra far seguito – a prescindere da una valutazione sanitaria strictu sensu – a un’insopprimibile spinta, che il personaggio manifesta, a reagire in modo adirato e poco lucido quando gli sembra che le sue disposizioni (ordini) precedenti siano state trasgredite. Fontana aveva detto una decina di giorni prima – ricordava in una intervista Francesco Benozzo – rivolgendosi ai cittadini lombardi, che dovevano attenersi alle raccomandazioni: “se la capite con le buone bene, altrimenti dovremo usare altre maniere”. Il moto d’ira era stato causato dal fatto che era parso ad alcuni che vi era per le strade un maggior numero di cittadini rispetto ai giorni precedenti: giacché taluni non erano stati ligi alle disposizioni, l’iracondo Fontana imponeva allora a tutti, un ulteriore giro di vite disciplinare. Come ha notato Benozzo, il modo di rivolgersi ai cittadini di Fontana non era quello di un uomo di governo che si rivolge in modo responsabile ai suoi concittadini da loro amministratore, quanto quello di un padre che si rivolge in tono autoritario ed impaziente ad un nugolo di bambini poco responsabili. A prescindere dallo stile gravemente scorretto, ma forse da certi personaggi non ci si può proprio aspettare di meglio, si può rilevare, sulla linea di Hanna Segal, che se nei nostri studi entrasse un uomo che ci dicesse che quando uno dei suoi figli gli disobbedisce, lui punisce con severità ancora maggiore em>tutti i bambini e che fa questo per il loro bene, noi non avremmo dubbi nel pensare che si é di fronte ad una persona piuttosto disturbata e non superficialmente. Così faceva il sergente Hartman nel capolavoro di Stanley Kubrik Full Metal Jacket: il soldato “Palladilardo” aveva nascosto una ciambella e per questo il sergente puniva tutta la camerata. Prima amara considerazione: se i metodi del sergente Hartman apparivano non solo duri, ma sadici e inumani, rimanevano però quelli di un sergente istruttore dei marines ; da un presidente di una regione di dieci milioni di abitanti eletto in modo democratico ci si aspetterebbe un comportamento meno sgangherato, più consono alla sua carica.
Il comportamento del nostro Hartman di Varese ci aiuta a cogliere meglio però, nella sua rozzezza, alcune questioni di ben maggiore peso.
Riprendendo quanto detto in una nota precedente sullo stato di eccezione , notiamo che, proprio in quanto questo stato non ha un fondamento giuridico, ma trova la sua ragione proprio nell’essere costitutivamente fuori dalla norma , quando incontra una reazione anche di modesta importanza, non può reagire applicando la legge, ma solo, in modo reattivo, può inasprire i provvedimenti rendendoli ancora più feroci: è quello che sta succedendo in Sud Africa dove esistono immense bidonville la cui popolazione, con il divieto di spostamenti in vigore, non può più procurarsi di che vivere materialmente; la reazione delle autorità è stata quella di far intervenire l’esercito che può aprire il fuoco contro i “rivoltosi”. Stessa cosa sta avvenendo nelle Filippine. Si crea una situazione, nello stato di eccezione, per la quale eversione e repressione si inseguono in un avvitamento progressivo pericolosissimo.

Il soldato “Palladilardo”, reo di aver sottratto una ciambella, diviene il responsabile di fatto – così può decidere il sergente – di una infrazione che coinvolge l’intero reparto; per questo tutti vanno puniti. Questa logica assurda e paranoide diviene però anche la logica dell’intero gruppo di soldati della camerata che massacra di botte, cogliendolo nel sonno, il povero infelice. La logica paranoide ha un effetto immediato ed una conseguenza, meno immediata, ma di portata ben maggiore: l’effetto immediato è quello di far venire meno la solidarietà di gruppo e di aumentare la delazione, la caccia all’untore. In un telegiornale due vigili urbani (oggi, nella logica securitaria, trasformati in poliziotti locali) raccontavano orgogliosi di come andassero a stanare nel bosco qualche irriducibile del jogging, che stava chiaramente attentando alla salute pubblica con il suo comportamento criminale. Qualcuno di questi, visto in cielo un drone, si era inoltrato nel fitto per evitare di essere individuato e multato. La logica paranoide non tollera non solo il dissenso, ma neppure un ragionamento che presuppone che una legge, prima che della sanzione, consista in una ragione, in una causa del suo essere legge. Qualche anno addietro, Eugenio Gaburri, un collega purtroppo scomparso, riprendeva nel titolo di un suo libro, Ululare coi lupi , una metafora del conformismo che era stata utilizzata da Freud; nel gruppo paranoide, il gruppo in assunto di base di attacco e fuga , come lo chiama Bion, non pensare quello che impone la mentalità di gruppo è un tradimento che va punito con una punizione terribile. Era questa la logica dei tribunali di Stalin per i quali ogni pensiero diverso da quello del leader, Stalin appunto, era un segno del tradimento degli ideali per i quali il gruppo combatteva: mangiare una ciambella è un tradimento dello spirito guerriero dei marines, fare una corsetta attorno a casa è un tradimento nella lotta contro il coronavirus.
Si avverte da questo come l’altra conseguenza di una mentalità di gruppo paranoide sia lo smarrimento di quello che è il caposaldo del diritto in una società democratica, l’habeas corpus. Nella logica paranoide dello stato di eccezione, non vi è alcuna necessità di un giudizio fondato su prove per indicare qualcuno come colpevole: se un cittadino cammina da solo senza mascherina non evade la disposizione che è volta a tutelare da contatti che possono risultare contagiosi, ma evade l’ordine che impone a tutti di portare la mascherina protettiva; di più, se una persona ha la certezza di essere in buona salute, non dovrebbe avere il dubbio di poter contagiare qualcun altro con un male che non ha, ma se si pensa che vi sono portatori sani di un virus, allora non esiste più prova della propria buona salute. Bisognerebbe fare un test per accertarlo, ma a) il test dovrebbe essere fatto a tutti i membri della comunità e, quand’anche, b) dopo qualche giorno, si attestasse che il cittadino X non è un portatore sano, questo varrebbe per il giorno in cui il test fosse stato effettuato, ma a quel punto lo si dovrebbe rifare. Il sospetto paranoide non ha necessità alcuna dell’habeas corpus , perché esso stesso costituisce una prova della colpevolezza: come ci ha mostrato Kafka, se qualcuno è mandato a processo lo è perché colpevole; il processo non serve a chiarire ed a capire per poter comminare eventualmente una condanna, ma deve produrre una condanna che è, immediatamente e di fatto, chiarimento e comprensione. Se il rinviato a processo non fosse condannato, sarebbe inevitabile concludere che i giudici sono nemici della verità, la quale è chiara a priori, e quindi sono traditori.

Il funzionamento psicotico, ci aveva spiegato Freud, non viene a patti con la realtà esterna, come fa invece, maldestramente, quello nevrotico, ma semplicemente la sopprime. Se il gruppo psicotico, coloro che si identificano per esempio con la disposizione paranoide di Fontana, è minacciato da un nemico esterno, chiunque la disattenda, e questo nemico non è immediatamente individuabile, è subdolo , come ha pateticamente affermato uno dei mille virologi intervistati in queste settimane dalle televisioni trasformando ipso facto un virus in una entità maligna antropomorfa, il sospetto non si rivolge più solamente all’esterno del gruppo, ma anche al proprio interno giacché chiunque potrebbe essere l’agente infiltrato del nemico, il portatore sano. L’angoscia indotta dal nemico subdolo tende a rinforzare la persecutorietà e la persecutorietà trova una pausa breve e transitoria solo in un ulteriore provvedimento restrittivo che si può assumere di nuovo all’interno dello stato di eccezione. Persecutorietà, disgregazione del tessuto sociale e sospensione della democrazia sono strettamente correlati e tendono ad avvitarsi in un processo che si autoesalta: Erika Mann ce ne ha dato un quadro straordinario in un volume che racconta varie storie di individui nella Germania hitleriana, Quando le luci si spengono.

Se punire è uno strumento di governo, l’altra tavoletta del dittico, come ha detto Foucault, è sorvegliare.
In una fantasia autoritaria e violenta della relazione, la parola o l’atto dell’altro non divengono mai oggetti da accogliere e da elaborare: vanno solamente approvati, se sono in linea con quanto ci si attende, o respinti se non lo sono. L’altro non è mai qualcuno da conoscere: può essere solo un adepto o un nemico. Nella relazione autoritaria non vi sono contenitori nel senso bioniano, ma solo rifugi della mente (Steiner), caverne protettive, come i bunker, che sono la tana dell’angoscia e che emettono fuoco e piombo verso chi appare alla vista. Sorvegliare diviene allora il modo per impedire il tumulto, la rivolta che certamente cova e che è alimentata dai portatori sani, gli invisibili e, per questo peggiori, nemici.
Gli elicotteri della polizia,i droni, le mappe dei movimenti degli individui ricavate dalle cellule telefoniche, i braccialetti elettronici, come ha addirittura suggerito un industriale (che, ovviamente, li produce), sono gli strumenti che dovrebbero rassicurare il leader del gruppo paranoide – cioè, ci dice Bion, il membro più paranoico del gruppo – che non ci sono pericoli, che tutto funziona.
Ma come si può essere certi che tutto funzioni? Non può essere che se tutto sembri funzionare, non si sia visto un pericolo o un nemico nascosto? E come si può allora individuare un nemico talmente subdolo da farci credere che tutto vada bene? Si deve certamente restringere ancora di più le libertà di movimento e di associazione, meglio anche quella di parola! E poi ci sono sempre, in casi estremi, gli estremi rimedi: ucciso il serpente, si è eliminato alla radice il veleno! L’avevano capito i governanti bibliofobi di Fahrenheit 451 , il film di Truffaut del 1966 tratto da un romanzo di Rod Bradbury, che i libri li bruciavano. I libri coltivano il pensiero, la fantasia, la curiosità: quanti libri avrà letto il sergente Hartman?

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