L’eclissi del privato pensante
di Gianni Trimarchi
Uno dei temi che continuano a proporsi in vari contesti è il rapporto fra l’atteggiamento naturale, simbolico e intuitivo e la conoscenza scientifica, fondata su argomentazioni, che danno come scontati e ineluttabili i postulati di base. Gli averroisti, già nel 1.100, affermavano, con disprezzo piagettiano (ante litteram), che “Sermones theologorum fundati sunt in fabulis”. Siamo tuttavia sicuri che le fabulae, o le strutture di sentimento, non contino nulla nella vita dell’adulto sviluppato, capace di argomentare?
Non è di questo parere W. Bion, quando ci parla dei momenti della vita in un gruppo, intatti:
Trovandosi a contatto con la complessità dei problemi di vita del gruppo, l’adulto, come per una massiccia regressione, torna a usare quei meccanismi che secondo la Klein sono tipici delle prime fasi d vita mentale. L’adulto che si trova costretto a entrare in rapporto con la vita emotiva d gruppo in cui vive, deve affrontare un compito altrettanto problematico, quanto il rapporto che ha il bambino col seno […] La regressione implica per l’individuo la perdita della sua individualità. Questo fenomeno indistinguibile della depersonalizzazione è quindi di ostacolo alla possibilità di considerare questo aggregato come composto da individui.[1]
Secondo Bion peraltro “nonostante l’influenza degli assunti di base, il gruppo razionale, o di lavoro, alla fine riesce a trionfare”[2], però l’individuo inserito nel gruppo si trova sempre dialetticamente inserito in tensioni che tendono a riportarlo dal momento razionale a quello emozionale, o rituale, del conoscere.
Queste considerazioni si possono ulteriormente verificare attraverso l’opera di un sociologo, poco esperto in questioni psicoanalitiche, al quale però alcuni fatti risultavano molto chiari. Parlo di Alfred Schutz, allievo di Husserl, profugo negli Stati Uniti a partire dal 1939, il quale scrisse un acuto saggio sulla sua condizione di straniero. Nel suo caso si trattava di una condizione previlegiata, dal momento che ebbe da subito una cattedra di sociologia a New York, tuttavia questo non escluse tutta una serie di problemi a carattere rituale, che gli resero complessa la vita. In sostanza il gruppo dei suoi colleghi newyorkesi si manifestava nei suoi confronti come strettamente legato agli assunti di base. Infatti una pesante dipendenza nei confronti della tradizione locale si ribaltava in un assunto di attacco-fuga, ai danni di chi, venendo dall’esterno, non poteva condividere questo tipo di ritualità e risultava come un barbaros, incapace di parlare nella lingua giusta. In un primo momento non è così, in quanto inizialmente lo straniero è una sorta di “spettatore disinteressato”[3] che, con un atteggiamento in certo qual modo etnografico, cerca di capire usi e costumi del “nuovo gruppo”, ragionando, ovviamente, con le categorie del suo gruppo di origine. A un certo punto, però, il nuovo modello culturale non è più un semplice oggetto di osservazione, ma diventa una parte del mondo che lo straniero deve controllare. Egli salta, per così dire, “dalla sala alla scena”, cambiando il suo “sottouniverso di senso” e diventando uno degli attori. Qui tutti i suoi riferimenti crollano: quelli del gruppo originario gli risultano inadeguati, ma anche i nuovi si mostrano nella loro inconsistenza[4], in quanto rituali e non fondati su una vera e propria conoscenza. In sostanza, per Schutz, i docenti di New York non fanno meno riti dei Nambikwara…
[Il nativo statunitense] non si occupa che in maniera parziale – diremo eccezionale? – delle sue conoscenze. Gli basta avere a disposizione un telefono funzionante, anche senza sapere come funziona. […] È un sapere fatto di ricette sulle quali si può contare per interpretare il mondo sociale e per trattare gli uomini e le cose allo scopo di ottenere in ogni situazione il miglior risultato con il minimo di sforzo. […] Ogni membro del gruppo accetta lo schema prefabbricato e standardizzato del modello culturale che gli antenati, i professori e le autorità, gli hanno trasmesso.[5]
Il meteco trova poi difficoltà difficilmente sormontabili, anche per quanto riguarda la lingua, perché questa viene appresa solo in parte dalla grammatica e dal vocabolario. Per padroneggiarla fino in fondo ci vuole il marchio dell’abitudine e della semi-coscienza[6]. Infatti, per poter dialogare con gli Yankees, non basta conoscere la Bibbia (magari in ebraico), o Goethe in tedesco: bisogna comunque aver letto i testi in inglese, occorre anche “aver scritto lettere d’amore, saper pregare e maledire nella loro lingua”[7].
I “nativi” rimproverano spesso allo straniero di non cercare “asilo e protezione”[8] nel nuovo modello culturale. Essi non comprendono che nella fase di transizione quel modello non è per lo straniero un rifugio, ma “un paese avventuroso[9], […] un labirinto in cui egli ha perduto il senso dell’orientamento”[10]. Viceversa nessuno di questi nativi ha mai pensato di potersi avventurare nel “labirinto” di una cultura diversa dalla propria, uscendo dal ristagno causato dalla collocazione in uno schema culturale costante e mai discusso. Nessun di loro ha mai provato ad “amare e maledire” in un’altra lingua.
Se la situazione consistesse davvero in questa ineluttabile contrapposizione frontale fra due modelli culturali, avrebbe ragione J. M. Le Pen, del Front National, nella sua “metamorfosi dal razzismo biologico a quello culturalista”[11], quando afferma:
I popoli devono conservare e coltivare le loro differenze…l’immigrazione è da condannarsi, in quanto attenta all’identità della cultura dell’accoglienza, come a quella degli immigrati […] I popoli non possono essere considerati superiori, o inferiori: sono diversi [12]
Ugo Fabietti, tuttavia, cita Le Pen, ma allo scopo di confutarlo, infatti egli osserva:
Anche Levi Strauss aveva parlato della “necessità di preservare la diversità delle culture in un mondo minacciato dalla monotonia e dall’uniformità”, ma questa necessità di preservare la diversità non coincide con l’irrigidimento delle culture in entità chiuse e non comunicanti.[13]
In sostanza, se volessimo pensare alle singole culture come a qualcosa di idealmente inscrivibile in una sorta di tabella di Mendeleev, faremmo un grosso errore, perché di fatto in questo ambito sono sempre attivi processi osmotici . Qui vale la pena di ricordare un passo molto ironico, ma profondo, scritto da un antropologo americano negli anni trenta:
Il cittadino americano si sveglia in un letto costruito secondo un modello che ebbe origine nel vicino oriente, ma venne poi modificato nel nord Europa prima di essere importato in America […] si leva il pigiama, inventato in India, e si lava col sapone, inventato dalle antiche popolazioni galliche […] Mentre fuma, legge le notizie del giorno stampate in un carattere inventato dagli antichi semiti, su un materiale inventato in Cina, secondo un procedimento creato in Germania. Mentre legge i resoconti dei problemi che si agitano all’estero, se è un buon cittadino conservatore, con un linguaggio indo-europeo, ringrazierà una divinità ebraica di averlo fatto al cento per cento americano. [14]
Verrebbe di pensare che Linton alluda a qualcosa di più di un semplice intreccio di dispositivi, perché il discorso potrebbe proiettarsi ben più in là. Invece di indurci alla chiusura totale di un gruppo di attacco e fuga, forse la commistione, già parzialmente in atto fra i popoli, potrebbe dar luogo agli esiti di un gruppo di accoppiamento, portandoci a inventare nuove forme e nuovi legami nella nostra vita quotidiana.
Ricordo una comunicazione a un congresso di linguistica organizzato anni fa dall’università di Milano Bicocca. Il relatore riferiva sulle modificazioni del linguaggio messe in atto in un mercatino della verdura a Roma. Lì le lingue parlate erano tante e i processi, diversamente da quanto riferisce Schutz, erano circolari: insieme alle foglie di insalata, o ai mandarini, transitavano concetti e affetti, capaci di modificare reciprocamente le strutture di base del pensiero.
Oggi abbiamo in atto degli scontri dialettici, con pesanti eruzioni delle “strutture di sentimento”, in forma spesso distruttiva[15]. Da tutti questi scontri però si spera possa emergere un nuovo concetto di ragione: il problema consiste nell’avere attenzione non al “mero risultato”, ma alla ”tendenza”, vale a dire a ciò che si appresta a nascere, promettendo di riportare l’identità umana alla dimensione razionale del gruppo di lavoro.
[1] W. Bion Esperienze nei gruppi, trad it Roma, Armando 2013, pp 151-152
[2] Ibid. p. 145
[3] A Schutz L’étrager, Allia, Paris 2010, p 21
[4] Ivi, p 22
[5] Ivi 16
[6] A. Schutz Lo straniero cit, 31
[7] Ivi, 30
[8] Ivi, 38
[9] Ivi, 35
[10] Ivi, 38
[11] U. Fabietti, L’identità etnica, storia di un concetto equivoco, Roma, Carocci, 2005, p 83
[12] ibid
[13]Ibid, p 84
[14] Ralph Linton, Lo studio d uomo, 1936, in Fabietti cit p 23.
[15] A Appadurai Modernità in polvere, trad it Roma, Meltemi 2001. Dello stesso autore v anche Sicuri da morire: la violenza nell’epoca della globalizzazione. Trad it Roma, Meltemi, 2005
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