L’arpa eolia
Leggere la città – Quattro testi di Paul Ricoeur, a cura di Franco Riva, Castelvecchi, 2013
Leonardo Benevolo, La fine della città, a cura di Francesco Erbani, Laterza, 2011
La città buona, la città cattiva, Costruzioni Psicoanalitiche, a XI – n. 22/2011
L’arpa eolia è uno strumento che suona da solo (nella figura uno dei tanti modelli possibili): il vento, quando lo attraversa, anima le corde che si trasmettono le vibrazioni – una sorta di empatia fisica – emettendo note amplificate da adeguati risonatori.
Si generano così melodie imprendibili e cangianti, sorrette dalle risonanze armoniche dei sovratoni che compongono la nota fondamentale di ogni corda.
Una analoga risonanza è un fenomeno quotidiano nel contesto degli studi, quando, in qualsiasi disciplina, una nuova pubblicazione su determinati temi, come un colpo di vento, richiama, con associazioni spesso imprevedibili o anche con collegamenti non indicati dall’autore, altri studi che hanno trattato gli stessi temi da differenti punti di vista.
Nell’attuale circostanza, il fatto iniziale che ne mette in risonanza altri è la ripubblicazione di un testo già apparso nel 20081 sempre a cura di Franco Riva, in una edizione integrata da un utile apparato tematico. Si tratta di quattro studi che Ricoeur scrisse nel 1996-97 e nel 1994. Indipendentemente dalla cronologia, il curatore li ha disposti in un ordine che sottende una loro valida connessione logica, spiegandone la chiave in una introduzione che, per ampiezza e profondità e per l’abbondanza di riferimenti ad altre opere di Ricoeur, costituisce un ideale quinto saggio sui temi trattati2 .
Fra le possibili risonanze cui l’iniziativa
dà luogo, è di particolare interesse, nell’ambito del sito di SPC, la triangolazione fra psicoanalisi, urbanistica e, in senso ampio, filosofia del linguaggio.
Di due vertici del triangolo si era occupata due anni fa la rivista Costruzioni Psicoanalitiche, in un numero polifonico realizzato col contributo di psicoanalisti, urbanisti, studiosi di varia provenienza e esponenti della Pubblica Amministrazione, poiché la pubblicazione era dedicata alle trasformazioni in atto nella città di Sesto San Giovanni.
Le considerazioni emerse da diversi punti di osservazione si potevano far convergere anche in una particolare visione della città, mutuata da concetti psicoanalitici di derivazione kleiniana – il seno buono e il seno cattivo trasposti in la città buona, la città cattiva – con quali si configurava come “buona” la città che in tutte le sue strutture – architettoniche, amministrative, sociali – sapesse mantenere attivo il tessuto delle relazioni, nelle trasformazioni valide e corrette, come in quelle più criticabili o sbagliate
Non casuale, fra gli altri, il fatto che il progetto di trasformazione della grande area industriale ex Falk a Sesto avesse fra i suoi principi istitutivi quello di “una
città che dialoga”, come lo presentava il suo autore, Renzo Piano.
La città come soggetto di relazioni, la città che parla, figura genitoriale che ognuno si ritrova senza averla scelta e dalla quale non si separa mai, è una trasposizione metaforica delle dinamiche di accettazione e rifiuto, di ostilità e dipendenza che improntano la vita delle comunità urbane tanto quanto quella di ogni singolo individuo.
Una metafora che, a buon diritto, gli urbanisti possono giudicare forzante, oltre che di scarsa utilità per il loro lavoro, e che probabilmente apre un divario
fra loro stessi e i filosofi.
Ma proprio sul ruolo degli architetti, e su una loro potenziale estraneità alle problematiche profonde di quelle comunità, Ricoeur, come vedremo, approda a conclusioni provocatorie.
L’altra accoppiata – urbanistica e linguaggio o, più precisamente, scrittura – si collega all’intervista che Francesco Erbani fece a Leonardo Benevolo due anni fa, pubblicata in una testo breve, ma di notevole densità, che ripercorre momenti salienti dell’esperienza di uno dei maggiori urbanisti del ‘900.
La fine della città comincia col suo sconfinamento irreversibile e incontenibile oltre i limiti del territorio suo proprio.
L’origine della città invece, cinquemila anni fa, fu il contrario:
La città deve distinguersi nettamente dall’intorno, ha un suo nome e una sua individualità paragonabile a quella di un essere umano (…) Il nuovo paesaggio che si definisce deve poter essere memorizzato e diventa uno strumento essenziale per orientarsi nel tempo. Non è casuale che la città nasca contemporaneamente alla scrittura che consente di documentare questo passaggio e che diventa strumento di dialogo fra le persone, sia nello spazio sia nel tempo. 3
La scrittura non è, quindi, solo strumento di narrazione e conoscenza, ma struttura organizzativa che si evolve nello spazio e nel tempo.
Erbani, proseguendo il discorso di Benevolo, lo sottolinea richiamandosi a Wittgenstein per il quale “al pari di una città una lingua è un organismo vivente che cresce rispondendo all’esigenza di nuovi significati”.
In piena risonanza con queste considerazioni, la prima certezza che si ricava dai testi di Ricoeur è che la città è, appunto, una cosa da leggere. Ma non, banalmente, in quanto narrazione della storia esposta dai suoi monumenti e dalla sua fisionomia.
Lo è invece per una singolare e fertile solidarietà fra architettura e narrazione, tesi che costituisce il nucleo del primo dei testi, Architettura e narratività.
Si tratta dell’intervento che Ricoeur fece alla XIX Esposizione Internazionale della Triennale di Milano del ’94 dedicata a Identità e differenze , e già nell’assumere come sue coordinate istitutive lo spazio e il tempo, oltre che per l’espresso collegamento a Wittgenstein, si salda alle considerazioni di Benevolo.
L’architettura è per lo spazio ciò che la narrativa è per il tempo. Come l’architettura agisce sullo spazio per trasformarlo, la narrativa interviene sul tempo per organizzarlo, ed entrambe le attività “creano memoria”. Ricoeur, per spiegare come i due processi si evolvano in parallelo, applica all’arte del costruire gli stessi parametri cari all’arte del narrare, ossia i concetti di prefigurazione, configurazione e riconfigurazione.
Prefigurare: a livello del racconto rappresenta i discorsi orali spontanei che, senza alcuna velleità letteraria, rispondono all’esigenza di mettersi in comunicazione con gli altri. Alla stessa maniera il costruire primitivo risponde alla necessità di abitare, fase in cui l’architettura è fortemente caratterizzata dai suoi rimandi arcaici: il bambino che si trova improvvisamente espulso dal ventre materno non potrà che trascorrere il resto della sua vita alla ricerca di quell’abitare.
Configurare: il racconto diventa letteratura, crea una trama a partire dalla “messa-in-intrigo”, passando per l’ ”intelligibilità’” e concludendosi con l’ ”intertestualità”. Sul piano dell’ architettura dapprima si discerne tra l’eterogeneità delle forme con la composizione (messa in intrigo), si prosegue con la conquista della leggibilità partendo da un contesto che per definizione è inestricabile (la città) e si finisce con il fare i conti con tutto ciò che è stato costruito sia nell’ambito d’intervento che nella storia dell’architettura (intertestualità).
Riconfigurare: Il racconto non si conclude nell’ambito della narrazione, ma continua la propria vita nel confronto con il lettore. Questo passaggio chiarisce in maniera definitiva la soggettività dello scrivere e del leggere, così come dell’abitare e del costruire, azioni la cui dialettica non giunge mai a un compimento tanto da rendere necessario “elaborare il cordoglio della comprensione totale e ammettere che nella lettura delle nostre città vi è dell’inestricabile”.
Come si vede, se la città è un racconto, quando è il racconto di chi la vive – il “mio” racconto – diventa, indipendentemente dalle logiche esterne (politiche, economiche, funzionali, eccetera), una formazione dell’Io, profonda quanto basta per attivare dinamiche inconsce.
Le testimonianze circa le proiezioni del vissuto della città a livello onirico e immaginario sono numerose nella letteratura psicoanalitica. Interessante ad esempio, per la sua risonanza con i “rimandi arcaici” di Ricoeur prima citati, una di Salomon Resnik, che in un suo saggio sottolineava come “ogni spostamento nello spazio e nel tempo evoca la nascita, la separazione originaria” ((Il saggio – Sul fantastico. Tra l’immaginario e l’onirico, Bollati Boringhieri, Torino, 1993 – riportava i risultati di un lavoro compiuto sui bambini di scuola elementare attorno al percorso casa-scuola. La citazione è ripresa da Adriano Voltolin, Tra Benjamin e Freud: la città come trasformazione dello spazio in Costruzioni Psicoanalitiche cit. pag. 9-26, studio che si addentra nell’analisi dei conflitti sottesi alla elaborazione simbolica della città)) .
Il parallelo città-scrittura va quindi abbondantemente oltre i confini della semplice analogia e aspira a individuare momenti fondativi della coscienza nel rapporto col mondo, rapporto in cui scrivere e abitare in una collettività urbana vanno di pari passo.
Questo sconfinamento in una dimensione in cui la filosofia, non priva di valenze psicoanalitiche, aspira a un ruolo primario, trova conferma nel secondo testo, La città è fondamentalmente in pericolo. La sua sopravvivenza dipende da noi.
Si tratta di un’intervista4 in cui l’ermeneuta, nel rispondere ad alcune domande circa il ruolo del filosofo nella società e nella vita pubblica, diventa perentorio al limite del paradosso. Poiché la città è un progetto rivolto al futuro la cui sopravvivenza è messa costantemente in pericolo, bisogna sorvegliarne la crescita senza abbandonarla agli specialisti. L’architettura assomiglia alla politica perché
… il politico è predisposto a dei mali caratteristici per il fatto stesso che sembra capace di esistere al di sopra di noi o, al limite, contro di noi. In quanto puro fenomeno di potere può corrompersi (…) e per questo deve rimanere sotto sorveglianza.
La politica non rientra tra i saperi scientifici , quindi nemmeno l’architettura.
A conclusioni simili era giunto Alexander Mitscherlich, singolare figura di psicoanalista e sociologo che, mezzo secolo fa, aveva analizzato le possibilità di un connubio fra psicoanalisi e urbanistica5 .
Il cerchio di una lettura psicoanalitica della città – ma va detto che non si incontra quasi mai questo termine – si chiude nel terzo testo, Urbanizzazione e secolarizzazione ((in “Christianisme sociale”, 1967, pp. 327-341)) in cui, parlando delle caratteristiche fondamentali di ogni centro urbano, si mettono a fuoco le patologie che, nella loro possibile degradazione, vi si annidano. Si possono molto brevemente riassumere.
Dall’essere la città fulcro di scambi deriva il rischio di un anonimato delle relazioni come risposta a un mondo sovraccarico di impulsi.
Se la mobilità urbana si accelera a un ritmo non compatibile con quelli delle persone si va incontro a disorientamento e perdita del centro.
La benefica organizzazione dei dati amministrativi si evolve nel noto “fenomeno canceroso” della burocrazia.
La dimensione tecnologica, se diviene predominante trasforma l’ abitante in un semplice ingranaggio in un contesto alienato e privo di progetto comune.
Lo scenario è quello, noto da tempo, della alienazione urbana, spettro che aleggia ovunque nel pensiero del ‘900, come nei quadri di Hopper.
Ed è il quadro da cui prende le mosse il quarto testo Il progetto di una morale sociale ((in “Christianisme social”, 1066, pp- 285-295)) :
La lotta contro la disumanizzazione, nei grandi complessi urbani, negli ospedali psichiatrici, negli ospizi per anziani, ecc. ci fornisce il modello di quella che si può chiamare un’ ”azione personalizzante”.
L’ ”azione personalizzante” si forma dopo aver constatato che il progetto di una
morale sociale sistematica che sappia fondere il messaggio cristiano con le grandi ideologie post illuministe dell’800 “è andato in frantumi”:
la società globale fa sempre meno ricorso alla proiezione di mire lontane e di ideali, e risolve sempre di più i suoi problemi sulla base della tecnicità presente (…) Non è più epoca di grandi sintesi. Una costruzione totale e coerente sarebbe oggi un inganno. La sola via aperta è quella di un metodo per approssimazione e convergenza.
Tale metodo prende le mosse da due “punti estremi e opposti”: “far prevalere i bisogni dell’umanità considerata come un tutto” e “personalizzare al massimo le relazioni che nella società industriale diventano astratte, anonime, inumane”.
Questa aspirazione, d’ispirazione fervidamente kantiana, non è meno utopica di quella di una morale sociale sistemica. Ricoeur lo ammette apertamente:
Anche lo scopo della azione personalizzante costituisce un’utopia: che ciascun uomo si realizzi pienamente (…) Per conto mio una morale sociale non parte da un sistema, ma da un paradosso, e riguarda due cose opposte; la totalità umana e la singolarità umana. Le voglio entrambe.
Ha però il merito, quella aspirazione, di individuare segmenti progressivi in cui operare per realizzarsi: l’uomo e il lavoro, l’indagine sui bisogni umani, la dialettica fra proprietà e socializzazione e quella fra tecnica e tecnologia. Di ognuno il filosofo traccia brevemente i principali vettori di indagine, fra i quali anche interrogativi come “Qual è l’idea implicita della felicità?”
Gira gira, si tratta di vedere, una volta ancora, secondo quale prospettiva l’uomo si possa collocare al centro dell’universo. E’ singolare – ed è una conferma dell’attualità di questi testi a mezzo secolo dalla loro formulazione – che ci si interroghi su un’idea di felicità cercandone nuove formulazioni sia pur parziali.
Singolare, ma neanche poi tanto.
In una recentissima iniziativa del Politecnico di Milano6 Gabriele Pasqui, direttore del Dipartimento di architettura e studi urbani Scuola di Architettura e Società del Politecnico di Milano, concludeva il suo intervento sottolineando come compito dell’architetto sia, se non direttamente la felicità, qualcosa che le va molto vicino: “rendere la vita facile a cittadini e imprese”.
Come si vede la lettura della città porta rapidamente, secondo Ricoeur, a rileggere altri testi, la Bibbia in primis.
Perché no?
C’è – è vero: e il Nostro non sembra avvertirlo – il rischio di allargare quel divario fra architetti e filosofi che, come si accennava, rende difficile applicare le istanze del racconto alle metodologie del progettista.
Ma è un rischio che si può minimizzare se si isolano e si tengono separati i diversi temi e problemi – trasformazione, racconto, comunicazione, politica e urbanistica, eccetera – in vista di ulteriori approfondimenti, coi quali cercare, per i problemi più incalzanti, prospettive di soluzione in aree meno esplorate.
Un approccio psicoanalitico può farlo (quei temi, ad esempio, sono, assieme ad altri ad essi coordinati, oggetto di altrettante analisi nel numero di Costruzioni Psicoanalitiche citato): con tutti i limiti e rischi dell’espatrio da una disciplina all’altra.
Ma anche con le soddisfazioni, e le aspettative, di una esplorazione in territori poco battuti, che può pervenire a risultati imprevedibili. Come le armonie dell’arpa eolia.
PS
“A un’arpa eolia” (An eine Aeolsharfe) è una poesia che Edward Mörike scrisse nel 1838 in memoria del fratello carissimo prematuramente scomparso. Fu messa in musica da molti compositori (Lied canto e pf), fra i quali Brahms nel 1858 e Wolf nel 1888, entrambi inarrivabili nel realizzare, con straordinarie modulazioni, la trasformazione del dolore nella dolcezza del ricordo, in modo che la fine possa diventare un nuovo inizio.
Della fine della città, o della scomparsa delle istituzioni tradizionali che da millenni vi sono sottese, parlano sia Benevolo sia Ricoeur (e non solo loro, ovviamente). Al discorso di un nuovo inizio la psicoanalisi può dare – non da sola, ovviamente e in forme sue particolari – un non piccolo contributo.
La Società di Psicoanalisi critica promuove lo studio, la ricerca e la formazione nel campo della psicoanalisi di Freud e di coloro che dopo di lui ne hanno continuato l’opera.
Vuole valorizzare gli aspetti teorici e clinici che fanno della psicoanalisi una scienza che indaga le forze psichiche operanti nell’uomo, in quanto singolo individuo e negli uomini, nelle loro aggregazioni sociali.
“Tutti i numeri dei Quaderni di Psicoanalisi Critica sono reperibili su ordinazione nelle librerie e disponibili presso la Libreria Franco Angeli Bookshop – Viale dell’Innovazione,11 – 20126 Milano.
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- allora da Città Aperta Edizioni [↩]
- L’angoscia dell’abitare. Ricoeur, Lyotard e la città postmoderna, in Leggere la città, cit. pp. 7-72 [↩]
- op.cit. pag. 6-7 [↩]
- di Roger Paul Droit in Les grands entretiens du monde, Le Monde Ed,, Paris, mai 1994b, tome II [↩]
- Die Unwirtklichkeit unserer Städte. Anstiftung zum Unfrieden, Frankfurt am Main, 1965; l’edizione italiana – Il feticcio urbano. La città inabitabile, istigatrice di discordia, Torino, 1968 – rispetta il titolo originale; quella francese, più spericolata – Psychanalyse et urbanisme.
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Réponse aux planificateurs, Pars, 1970 – no [↩]
- “Abitare la metropoli –Nuovi modelli sostenibili per la crescita urbana” , incontro promosso da Dareterra, Milano, 20-21 giugno 2013 [↩]