LA PANDEMIA, L’ISOLAMENTO SOCIALE E I SUOI EFFETTI SULLA CLINICA PSICOANALITICA
Il filosofo sudcoreano Byung Chul-Han parla di una “Società della fatica”. “Società delle prestazioni”
NON POTEVO CREDERCI!
A metà febbraio 2020, pochi giorni dopo il mio ritorno dalle vacanze estive1, una mia collega, con la quale condivido lo studio, mi racconta che sua figlia, che vive a Barcellona, le ha riferito che lì la gente aveva smesso di andare al lavoro, che lavorava da casa.
Ho detto: “E perché? Strano! Non può essere… Deve essere che lo fanno nel loro lavoro” (per il tipo di azienda era possibile). No! La mia collega mi dice che è a causa del coronavirus.
Ma il coronavirus è in Cina!
Tre giorni dopo stavo correndo, io e tutta la mia famiglia, a prendere il vaccino antinfluenzale e due giorni dopo mi stavo preparando per restare a casa e non tornare in studio: sono passati quasi 90 giorni.
Penso che non dimenticherò mai la mia reazione di incredulità alle prime notizie, non potevo in alcun modo credere che la gente avrebbe smesso di andare al lavoro, che i bambini non sarebbero andati a scuola, che le Università, i cinema, i tribunali, le strade, ecc non avrebbero funzionato come al solito. Eppure è successo! E ho pensato che fosse fantastico! (Questo è ancora più strano). Di fronte alla pulsione di morte, forse la prima cosa che mettiamo in atto è la fobia. Una collega2 considerava la possibilità di chiudersi in se stessi davanti alle devastazioni dell’essere in balia dell’Altro, per delimitare un esterno e un interno, per potersi differenziare da un tutto.
Dal 20 marzo ho sostenuto con forza la proposta dei nostri governanti. Sapevamo già ciò che era successo in Inghilterra, Germania, Spagna, Italia, ecc. Non c’era dubbio che la quarantena fosse la nostra migliore difesa, e quei governi che non hanno gestito le cose in questo modo mi sono sembrati e ancora mi sembrano disumani. Per coincidenza, corrispondono alle politiche più dure del neoliberismo. Il nostro amato popolo cileno, i nostri vicini, pativa una delle peggiori sofferenze. Discriminazione, femminicidi senza giustizia, salari da fame, uno Stato quasi monarchico, paesi che hanno dato ferocemente la priorità all’ideologia neoliberale, a scapito della vita del loro popolo.
Vediamo ancora i risultati delle politiche genocide come quelle di Bolsonaro in Brasile o di Piñera in Cile o di Trump negli Stati Uniti: c’è un’evidentissima simmetria tra neoliberismo e morte, questo lo sapevamo già, ma è diventato ancora più evidente, con tutta la crudeltà che questo comporta. La storia e la gente sapranno giudicarli.
Sono passati settanta giorni, nel frattempo ci siamo abituati a cose che non ci saremmo mai nemmeno sognati potessero accadere, solo a volte alcuni film hanno suscitato qualche preoccupazione, qualche domanda, però e allo stesso tempo, non mi sorprende tanto che il mondo si trovi oggi ad affrontare una pandemia, una catastrofe e non so bene perché, o sì?
La vera catastrofe è la morte. Quello che verrà – perché credo che questo lascerà dei segni profondi e forse ci troviamo a un bivio – andrà costruito.
Oggi stavo leggendo una relazione di Ignacio Ramírez3, sociologo argentino, che ha usato il termine “nuova normalità” e questo mi ha fatto riflettere. Sentivo che nella frase mancava qualcosa, ed è la dichiarazione di una “a-normalità”.
Prima di tutto dobbiamo renderci conto che ciò che chiamavamo normalità non c’è più e potrebbe non tornare. Ma questo ci fa anche riflettere sul perché chiamavamo normale un sistema ingiusto e che denigra gli esseri umani. Questo divide la società in una minoranza di persone iper-ricche e un’immensa maggioranza di poveri. Cosa c’è di così normale? Nel feudalesimo, la religione dava ordine a un sistema, il potere veniva da Dio e i poveri facevano parte dell’ordine divino. Ancora oggi alcune persone, e le politiche di facciata, continuano a trasmettere quest’ordine. La famosa frase “ma ci sono sempre stati i poveri” risuona nella mente della nostra cultura. E no, non ci sono sempre state persone povere, e alcune società ci dimostrano che è ancora così, non ci possono essere persone povere dove non ci sono nemmeno persone ricche.
Ma, torniamo alla clinica:
Vi racconterò la mia esperienza:
Dopo la dichiarazione della quarantena, ho chiamato tutti i miei pazienti e ho detto loro che avremmo continuato l’analisi per telefono o per videochiamata. Erano tutti d’accordo, tranne due.
Continuare a lavorare mi ha permesso di avere una certa idea di continuità della “normalità”, ma in realtà era più una sorta di adattamento a “un’altra normalità” che si è via via affermata.
La spesa e tutto il resto attraverso internet, i saluti attraverso Whatsapp, i compleanni attraverso piattaforme di cui non avevo mai sentito parlare in vita mia. Non solo, sono anche diventata esperta di diverse piattaforme.
Riprendiamo in questa modalità le lezioni, gli incontri di gruppo, gli atenei, i seminari, il tutto o meglio l’illusione del “tutto”. All’improvviso potevo, senza soluzione di continuità, finire la cena e iniziare a insegnare a una classe oppure partecipare a un incontro istituzionale.
Anche noi, come in Spagna o in Italia, abbiamo iniziato ad applaudire, nel nostro caso alle 21:00 e abbiamo applaudito il personale sanitario.
D’altra parte, a casa abbiamo deciso che saremmo rimasti tutti dentro fino a nuovo avviso e finora siamo praticamente riusciti a rispettarlo.
Non è strano?
A forza di adattarsi, e forse per il desiderio e la voglia di sopravvivere, il nostro “cosa fare”, i criteri di normalità che avevamo fino a meno di tre mesi fa, si sono un po’ sbiaditi, tanto che quasi non li ricordo. Non esco di casa, non vado dal medico, non vado a scuola, non vado all’università per insegnare alle mie classi. Non vedo i miei amici, non invitiamo né ci invitano, e la cosa più strana di tutte: gli inviti sono via Internet attraverso una molteplicità di piattaforme, con molte difficoltà e simulando una vita quotidiana fittizia. E la finzione è ciò di cui si tratta. Tutti noi facciamo finta che la vita vada avanti. E la vita continua, ma manca la cosa più importante: i corpi, i corpi degli altri e il proprio corpo.
Ieri un’amica ha commentato che il suo cellulare si era rotto, una tragedia! È stato come cessare di esistere, quasi una morte. All’improvviso ho pensato che il corpo si trovasse in un dispositivo. Era il dispositivo, l’unico corpo a cui abbiamo accesso, cioè il corpo immaginario.
E come pensare questo in clinica, come pensare la presenza dell’analista? Come si creano le formazioni dell’inconscio? A volte sì e a volte no. Il corpo manca nella realtà e questo è un dato di fatto. Penso che ci siano pazienti che hanno bisogno di un corpo reale più di altri.
Qualche anno fa ho scritto un testo sull’analisi online, non è qualcosa di strano per me nella pratica, ma sia allora che adesso, penso che non sia adottabile in tutti i casi.
D’altra parte per i pazienti, così come per me, tutto questo shock, a poco a poco, stava svanendo come argomento. Tranne in alcuni casi per cui hanno avuto la stessa funzione delle condizioni meteorologiche, una sorta di cambiamento senza senso.
E trovo che ci sono sogni, ci sono lapsus, perché, come diceva una cara collega4, l’inconscio non va in quarantena.
Molti dei pazienti all’inizio facevano associazioni con situazioni epidemiche, negli anni ’50 c’è stata un’epidemia di poliomielite in Argentina, che molti over 70 ricordano molto perché ha colpito la loro infanzia, anche allora hanno dovuto prendere le dovute distanze, evitare il contatto, prendere precauzioni. Altri facevano associazioni con l’HIV, gli stessi significati in gioco: distanza, nessun contatto, contagio incontrollabile, incurabile, portatore asintomatico, nessun vaccino. Un paziente ha ricordato la stigmatizzazione che, all’epoca, è stata quasi totalmente associata alla malattia e all’omosessualità.
Un altro gruppo fece associazioni con il periodo della dittatura, il nemico che non si vedeva a causa dell’occultamento che il potere stava mettendo in atto su quello che stava accadendo, le scomparse, lo stato di terrore, il trauma di una rottura del simbolico, della rete simbolica che fino allora ci aveva contenuto e che doveva essere rimodellata per continuare a farlo, nel tentativo di sostenere qualcosa che non sappiamo ancora se può essere realizzato.
E qualcosa del genere è quello che stiamo attraversando ora, la rete simbolica che ci ha contenuto fino ad ora, è stata strappata, ma non siamo ancora in grado di vederne le conseguenze, vediamo cose “strane”, perché abbiamo dovuto riorganizzare l’immaginario della vita quotidiana. E alcune cose sono l’orrore stesso. Come la fila di casse con corpi che giacciono indifesi, o la fila di fosse nel terreno in attesa di essere riempite. E tutto questo negli Stati Uniti. Senza famiglie, senza fiori, senza quei discorsi a cui gli americani ci hanno abituato nei loro film. Ci ricordiamo forse le prime frasi del suo presidente? “È solo un’influenza… il virus cinese”, ignorando la realtà.
Sto ancora aspettando che la cavalleria o le truppe americane vengano a salvare il mondo, ma sembra che questa volta dovrà essere il contrario. Se qualcuno viene “salvato”. Una parte dell’immaginario dei salvatori del mondo, anche solo per un momento, è stato spezzato. E questo avrà delle conseguenze.
Che cosa ci sta succedendo? Non so, qualcuno ha detto che per leggere i segni di un’epoca nella soggettività ci vogliono anni.
È vero che questa non è la prima peste o pandemia del mondo, ma quelle che ci sono state sono state molto tempo fa, e cos’è il mondo? Una linea evolutiva che sale all’infinito? Come ci ha detto il capitalismo, o forse no, e questi tagli lo dimostrano.
Linea ascendente dell’evoluzione o spirale che si ripete?
Curve e curve che attraversano di nuovo certi nodi, in un modo o nell’altro.
Ma tornando alla clinica,
oggi mi sono occupata di Berta, da diversi anni sta facendo un’analisi con me, è ottantenne e ha iniziato ad avere uno spazio dove poter parlare di ciò che provava per suo marito che da qualche anno era affetto da una malattia cronica e invalidante, a volte non lo sopportava e questo la rendeva molto angosciata.
Qualche mese fa è morto il marito, lo conosceva da quando aveva diciotto anni e avevano tre figli. Stavano per festeggiare il loro sessantesimo anniversario di matrimonio.
Il marito soffriva di una malattia incurabile, ma non era così grave. Tuttavia, a gennaio qualcosa che è iniziato come un semplice raffreddore, ha provocato poi una sorta di angina, finendo come una polmonite, che non è riuscito a superare, causando la sua morte. È rimasto così, nessuno ha detto niente, nessuno si è chiesto “e se si trattasse già di un caso di coronavirus?” Qualche mese prima aveva avuto la gioia della visita di un figlio che vive in Europa e che con grande sforzo era riuscito a venire a trovarli. Nessuno ha fatto domande e nemmeno io, se non dopo un po’.
Berta non sembrava angosciata o disperata, dall’isolamento obbligatorio diceva che stava bene, “dobbiamo superarlo, speriamo che accada presto, è la vita”, diceva: “va tutto bene… va tutto bene” come per rassicurarci entrambe. L’unica cosa che ripeteva più volte su suo marito era che non si aspettava che le cose andassero così, molte volte era successo che andassero alla guardia medica per qualche disagio e poi tornassero a casa.
Ha commentato che voleva andare al supermercato durante la settimana, sarebbe stata la sua unica uscita per almeno due settimane, era felice di dirlo a sua figlia, che è corsa a casa per fermarla. Più tardi, nel pomeriggio, il figlio l’ha chiamata da quel paese in Europa, che sta anch’esso vivendo con “tutto questo coronavirus”, e si è arrabbiato e le ha detto di non pensare nemmeno di uscire. “Persona a rischio” risuona ovunque. Della figlia ha detto: “sono stata colpita da una saponetta”, allora ho pensato che Berta sentisse che la figlia la trattava come il virus.
Il figlio le ha detto che poteva andare a fare una passeggiata, ma non al supermercato. Seguendo le regole del proprio paese, ma non in Argentina, né per camminare né per altro. Sapeva “tutto questo sul coronavirus”, impossibile non saperlo. Gliel’ho chiesto, e lei sapeva tutto, ed era d’accordo con le misure, perché allora sarebbe dovuta andare al supermercato lo stesso? Mi ha detto che forse perché pensava che non le sarebbe successo niente.
Ho pensato a quanto sia solida questa Berta, a come se la stia cavando bene.
Ha passato 10 anni a prendersi cura del marito, a rispondere alle sue esigenze, ai suoi bisogni e anche ai suoi capricci, a dormire quando dormiva, a svegliarsi quando si svegliava, a uscire quando usciva, a smettere di viaggiare per vedere i nipoti, perché non poteva, e ora che il marito non è qui, poteva dormire quando voleva, mangiare quando voleva, uscire quando e dove voleva, e viaggiare per vedere i nipoti, ma adesso non si può.
I nonni materni di Berta sono venuti dalla Russia, in fuga dal pogrom. Si erano stabiliti in campagna, lavoravano, hanno avuto sei od otto figli. Il nonno era “mezzo anarchico” e sapeva leggere, e leggeva le notizie di ciò che accadeva in guerra agli altri della cittadina, anche agli ebrei, come loro, o le lettere che ricevevano dai loro cari o scrivevano quelle che mandavano.
Anche i nonni paterni sono venuti di corsa dalla persecuzione, ma molto più tardi.
Quante famiglie hanno ripetuto lo stesso processo? Milioni, in fuga dalla guerra, dalla persecuzione o dalla carestia. Ripetizione: guerre, migrazioni, esilio, vicissitudini vari che costringono a decisioni drastiche, senza quasi nessuna opzione, cercando solo la possibilità della vita. Il varco che il destino ci offre improvvisamente come via d’uscita. Sarà lo stesso ora?
Tuttavia, la forma che questa fuga assume ora è l’ “insilio”. Proteggersi dall’interno, farvi sentire che ci si può fidare dell’interno.
Ora non c’è nessun posto dove andare, e la cosa migliore è restare dove si è, quasi pietrificati, come quando da bambini giocavamo alla macchia velenosa o alle belle statuine, chi si muove perde.
Un giorno Berta ripensò al perché questa volta non poteva tornare a casa da suo marito, perché era stato fatale? Il fatto che avesse quasi 90 anni non era una buona ragione, e nemmeno la sua malattia, e ha aggiunto “non sarà che il coronavirus era già lì?”.
Dopo qualche tempo Berta finalmente sogna, non lo ricorda bene, ma sente un risveglio molto vivido in cui chiama suo marito, che la impressiona, una volta lo chiama con tono arrabbiato e in un altro sogno è in tono affettuoso. Sembra che il lutto non sia concluso.
Un paziente borderline mi diceva: “beh, ora quello che provo io è quello che provano tutti, quindi non sto così male”.
Un altro caso che non aveva accettato di continuare in questa nuova modalità, si è ricollegato, e nella sua prima seduta telefonica ha raccontato un sogno molto significativo, che ha rettificato la sua posizione soggettiva nell’analisi e con la vita.
In generale, gli analisti continuano le loro analisi attraverso alcuni dei modi che la nostra insaziabile cultura è riuscita a realizzare, come se avessimo saputo che un giorno non saremmo stati in grado di stare insieme, in presenza del reale del corpo in gioco.
Sono piccoli schermi, ma sono validi, servono a connetterci, a vederci, a guardarci, ad ascoltarci.
In generale, ogni sessione inizia con qualche commento sulla “realtà” e sulle misure preventive, e si critica coloro che non le rispettano, per poi passare a ciò che è importante in ciascuna di esse, e la vita continua…
Solo pochi, e a volte, si impigliano, o meglio il loro fantasma coincide così tanto con “questa realtà” che l’angoscia vi si insinua.
1 Siamo in Argentina.
2 Helga Fernandez, 6/6/20 Corso annuale intensivo “El deseo y el goce en las estructuras clínicas. El neurótico moderno: las fobias”. EFA, online.
3 https://www.nuso.org/articulo/el-tiempo-de-la-imaginacion-politica/
4 María Gabriela Correia, “La Presencia del analista en época de confinamiento”, bibliotecaoscarmasotta.com.ar, https://bibliotecaoscarmasotta.com.ar/2020/04/24/la-presencia-del-analista-en-epoca-de-confinamiento-noli-me-tangere/