La morte profanata

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Santo Peli da “La resistenza difficile” – Franco Angeli 1999

Riflessioni sulla crudeltà e sulla morte durante la Resistenza

I

Le riflessioni che seguono rappresentano un primo tentativo di formulare delle ipotesi interpretative, di organizzare elementi d’analisi intorno ad una domanda che una serie d’episodi, d’avvenimenti incontrati nel corso di una ricerca sulla resistenza mi ha posto davanti, e che si può così sintetizzare: quali sono le ragioni della progressiva perdita di razionalità, o di necessità operativa, insomma di “senso”, di molteplici pratiche violente che aumentano d’intensità, e acquistano progressivamente connotati d’assolutezza, di male fine a se stesso, man mano che la vicenda resistenziale procede, anche quando i suoi esiti appaiono scontati? All’interno di questa generale questione, la mia attenzione è stata particolarmente attratta dalla prassi di violenze sui cadaveri, di divieto di sepoltura, di “profanazione della morte”.

Il terreno sul quale mi avventuro appare particolarmente infido; avverto pesantemente l’inadeguatezza e la rigidità dei tradizionali “ferri del mestiere”; indagando ragioni e implicazioni di comportamenti dove spesso sfumano i confini tra progetti razionali, magari ferocemente razionali, e imbarbarimenti individuali o collettivi, si deve accettare il rischio di incagliarsi nei fondali più bassi della soggettività, a sondare i quali lo storico non può che confessare la propria inadeguatezza[1].

Più che un tentativo d’analisi e di spiegazioni esaustive, mi propongo quindi di accennare semplicemente ai problemi molteplici connessi all’esistenza di una violenza “in eccesso” che deborda dalla normale esperienza umana. Nemmeno mi prefiggo di fornire una ricostruzione puntuale ed esaustiva dei molteplici episodi che si possono prendere in considerazione sotto la specie “morte profanata”, o “divieto di sepoltura”, o “esibizione di torture”. Più limitatamente, mi è parso utile, in via preliminare, avviare delle riflessioni intorno ad una costellazione di problemi; gli episodi cui faccio riferimento nel testo sono dunque  stati scelti, con tutto l’arbitrio del caso, in quanto esemplificativi, ricorrenti, tipici, mentre non vi è l’intento di ricostruzione, di verifica puntuale dell’episodio in sé. Nel fare questa scelta, mi è venuto naturale accostare ad episodi tratti dalla memorialistica partigiana altri episodi d’origine puramente letteraria, attingendo ad esempio a pagine di B. Fenoglio o di M. Tobino.  Le fonti letterarie non sono state scelte e utilizzate in quanto evocavano “correttamente” degli episodi così come si erano esattamente svolti, ma in quanto in grado di evocare, grazie alla loro letteraria capacità di sintesi, situazioni, clima morale, reazioni umane facilmente rintracciabili in molteplici episodi presenti nella memorialistica e nella storiografia sulla resistenza. Anche qui, dunque, non una campionatura scientificamente verificabile, ma l’azzardo di una scelta che io ipotizzo come significativa.  Essendo l’intento di queste note quella di avviare un discorso, consapevolmente frammentario e incompiuto, mi è parso un rischio accettabile.

II

Nel corso della resistenza, e in particolare della resistenza in montagna, nelle vallate alpine, una lotta serrata si svolge intorno alla sorte dei cadaveri dei partigiani uccisi, e spesso anche delle vittime di rappresaglie, che vengono ad essi assimilate.  Non si tratta di morti normali.  Per gli uomini della resistenza, il partigiano morto in combattimento è un martire, un eroe, intorno al quale, spesso a costo di gravi rischi, si riuniscono insieme la collettività civile, il villaggio, i contadini del luogo, e i partigiani. Il rito funebre deve essere il più possibile solenne; nonostante i rischi, la sacralizzazione della morte, del morto, è vissuta come fondamentale.

Partigiani dei dintorni erano arrivati e arrivavano a Mangano per vedere Maté esposto nella chiesa. C’era una guardia partigiana e le donne del paese si alternavano a gruppi a pregare. Maté  era stato lavato e pettinato, sul petto crivellato aveva uno strato di fiori. L’aria della navata era asfissiante[2].

Furono innanzitutto le donne a urlare, ad abbracciare quei loro possibili figli, a pulire le bocche, a chiudere gli occhi. I partigiani impiccati venivano dal carcere, vestiti di stracci, seminudi. Le donne corsero alle loro case, aprirono armadi, cassapanche, dove erano conservati i vestiti neri con i quali i loro mariti si erano sposati. Ne portarono quanti ne avevano, per ognuno ci fu la sua misura.

I dieci giovani furono presto ricoperti col vestito più bello che in quelle rustiche case si conservava. E, tutti aiutandosi, costruirono con rami e lenzuoli, dieci barelle, perché vi riposassero nella veglia funebre, che ci fu, e la mattina, mentre il sole indorava, furono sotterrati, ognuno con la sua croce[3].

Il 9 ottobre (1944) un forte gruppo della ‘Margheriti’ sceso dai monti, assisteva all’ufficio funebre di Emilio Bellardini. All’ultimo momento era stato spostato l’orario e l’ufficio iniziava mezz’ora prima. Le spie, gli informatori fascisti non hanno calcolato tale anticipo. I parenti del fucilato, la popolazione, i partigiani stavano uscendo dalla chiesa quando la brigata nera Tognù’ e i tedeschi, autocarrati e protetti dalle autoblinde, piombano in paese, penetrano nella chiesa, rovistano in ogni angolo e iniziano il saccheggio della sacrestia; asportano gli abiti del ‘Piccolo  Clero’ e le nere cinghie di cuoio che servono in montagna per trasportare i morti al cimitero [4].

Gli assassini hanno obbligato alcuni contadini a scavare una grande fossa e li hanno fatti seppellire [5] (…) La buona e coraggiosa gente si recò in Musna a dissotterrare i cadaveri dei tre Monella e del Belotti Francesco trucidati antiitalianamente il giorno 19 (maggio 1944, n.d.r.) [6].

III

L’importanza di questo rito sacro, della sacralizzazione, è da connettersi, almeno in parte, al bisogno di legittimazione presso la comunità di una lotta sanguinosa che avviene in un momento di grande ‘anomia’. Intendiamo, con questo termine, indicare le condizioni di relativa assenza di regole nel comportamento dei singoli, dovuto al venir meno di un quadro istituzionale  chiaramente definito. E, per quanto più direttamente ci riguarda, anche ai problemi derivanti dal venir meno del monopolio statale della violenza. Attraverso il rito religioso che ri-connette il morto partigiano alla sua comunità, si giunge a stabilire la sacralità della lotta, e quindi la sua legittimità. La necessità di riconfermare, anche attraverso la sacralizzazione, la propria lotta, nasce anche dal fatto che i partigiani si pongono, deliberatamente e volontariamente, sul terreno dell’uso della violenza. E’ avvenuta, appunto, una rottura del monopolio statale della violenza. I cittadini, da strumenti e beneficiari più o meno diretti e consapevoli, della violenza statale, divennero gestori in proprio della violenza. I problemi morali fatti nascere dalla smisurata violenza praticata da decine di milioni di uomini durante l’intera guerra vengono così caricati in modo particolare, pretendendo più nette risposte, su poche decine di migliaia di partigiani[7].

Credo che la particolare attenzione alle cerimonie funebri si iscriva, appunto, in un diffuso bisogno di riaffermazione della continuità delle tradizioni comunitarie, proprio in quanto la pratica della violenza  le minaccia. La guerra e l’uso di una violenza indiscriminata hanno fatto irruzione per la prima volta in vallate e comunità che, di guerra e violenza, avevano esperienza solamente come di cose che avvengono altrove, lontano. L’8 settembre, la fuga del re, la rovinosa dissoluzione dell’esercito e il progressivo smantellamento dell’Arma dei carabinieri [8], contribuiscono in varia misura al venir meno non solo dell’immagine ma anche dei cardini tradizionali dello stato.  L’incerto potere politico incarnato dalla RSI appare privo di ogni autonomia dagli occupanti tedeschi, e nello stesso tempo compie azioni che lo qualificano come naturale nemico della comunità: il rastrellamento degli uomini per il lavoro coatto in Germania, o per formare il nuovo esercito da gettare in una guerra già perduta. L’assoluta incapacità di organizzare il reperimento delle risorse alimentari, e tanto meno un’equa ripartizione, completa la non credibilità, l’assenza di autorità morale di questo nuovo stato. E, in effetti, possiamo pensare alla resistenza come al più grande fenomeno di disobbedienza di massa nella storia italiana, non a caso coincidente con l’esistenza di  uno stato privo di autonomia e di attendibilità. In questa situazione di anomia, il sacerdote appare molto spesso, al di là delle convinzioni religiose e ideologiche, come naturale, ovvio depositario della pietas, della religio, dei legami che fondano la comunità. La celebrazione solenne dei funerali dei partigiani uccisi è anche, quindi, garanzia di restaurazione dell’ordine comunitario violato; non a caso i partigiani tendono, anche attraverso messe in montagna e matrimoni partigiani celebrati con rito religioso a affermare la propria appartenenza alla comunità, proprio nel momento in cui il ricorso alla violenza può renderne problematica l’evidenza.

Accanto a questo vi sono probabilmente anche altri fattori che spiegano il particolare rilievo che lo stringersi della comunità intorno ai morti assume durante la resistenza. Si tratta prima di tutto dei “propri morti”. La guerra senza uniformi, combattuta volontariamente, determina un’individualizzazione del combattente, e quindi del combattente morto, inimmaginabile nella guerra tradizionale, soprattutto se si tiene conto del fatto che molto spesso si tratta di persone originarie della zona dove combattono e muoiono. Inoltre, l’onore reso ai caduti partigiani diviene una prova di coraggio collettivo, come atto di disobbedienza. Infatti, nella guerra partigiana onorare i morti e seppellirli secondo le consuetudini è una resistenza al divieto di seppellimento dei partigiani catturati e uccisi, e dei civili caduti nelle rappresaglie indiscriminate; divieto che diviene sempre più esplicito e ricorrente dalla primavera del ‘44.

Mani pietose di donne ricomposero i resti dei nostri caduti e diedero loro sepoltura senza esequie perché così vollero i rastrellatori [9].

La furia omicida non si è ancora placata, i tedeschi vanno al cimitero, legano i cadaveri, che le donne avevano ricomposti, alle autoblindo e li trascinano sul luogo dell’eccidio in piazza Cimavilla. Entrano nell’abitazione del Coffanetti e gettano il cadavere per le scale. Nessuno può avvicinarsi ai morti pena la distruzione del paese[10].

Per prima cosa asportarono il drappo funebre del deceduto Monella, già disteso sopra la bara, tutto pronto per il funerale. Poi, invece dell’acqua santa, aspersero la bara con benzina e bombe incendiarie [11].

Onorare i morti secondo i riti tradizionali è  dunque soprattutto una forma di resistenza, una resistenza attiva ad una barbarie che aggredisce il sentire collettivo, il fondamento stesso della collettività.

IV

I primi partigiani catturati sono fucilati nelle caserme, nei poligoni di tiro, lontano dalla vista della popolazione, e spesso anche in località diverse da quelle dove hanno combattuto. Ma dopo i primi mesi di guerra partigiana, sempre più frequentemente si diffonde non solo la pratica della tortura, ma anche l’abitudine di esibirla, possibilmente nelle zone teatro dell’attività partigiana. I corpi sono spogliati e volutamente imposti alla pubblica attenzione, le torture debbono essere ben visibili. La sepoltura dei corpi martoriati è considerata alla stregua del favoreggiamento ai partigiani.

Prima di partire un ufficiale le aveva detto che sarebbero tornati all’improvviso e se avessero visto il cadavere sparito o appena spostato le avrebbero fucilato marito e suocero e bruciato il tetto[12].

Il divieto  di seppellire è parte di una complessiva aggressione all’umanità  delle vittime,  una strategia di reificazione dei corpi esemplificata bene dal trattamento riservato ai cadaveri: abbruciamento, strascinamento, fino al lancio di bombe a mano sulla bara che abbiamo citato; gli esempi potrebbero moltiplicarsi. Imporre una lunga esposizione dei cadaveri sembra quasi una misura minima, oltre che più tradizionale; come ricorda Nuto Revelli, i tedeschi avevano largamente praticato l’esposizione dei cadaveri  durante le repressioni anti-partigiane in Russia[13].

Aveva anche visto, più di una volta, gli impiccati spaventosi, ragazzi e ragazze, con il capo brutalmente slogato dallo strappo della corda, gli occhi vitrei e le mani legate dietro la schiena: portavano al petto cartelli scritti in russo, ‘sono ritornato al mio paese’, o altre parole di scherno[14].

La dignità del morto, del cadavere è negata. Ma molto spesso queste morti sono precedute dalla tortura; anche qui, oltre e al di là di scopi razionali (la confessione, l’acquisizione di informazioni), si intravede la volontà di negare prima di tutto l’umanità di chi è sottoposto a sofferenze, appunto, dis-umane.

I nazisti torturavano al pari di altri perché grazie alla tortura volevano entrare in possesso di importanti informazioni politiche. Parallelamente tuttavia torturavano nella buona coscienza della malvagità. Martoriavano i loro prigionieri per scopi precisi, di volta in volta esattamente specificati. Ma torturavano soprattutto perché erano aguzzini. Si servivano della tortura. Ma con fervore ancora più profondo la servivano  (…) Il potere del torturatore sotto il quale geme il torturato, non è invece altro che l’assoluto trionfo del sopravvivente sull’individuo che, escluso dal mondo, è spinto verso la sofferenza e la morte[15].

A partire da questa considerazione, diviene comprensibile il paradosso per cui un torturatore può apostrofare così la propria vittima:

Dio che lurida belva sei, dio che occhi sporchi e feroci hai (…) E tu sei una belva, e se lo neghi io ti spacco il cranio contro il muro[16].

Anche l’uso di ganci da macellaio per appendervi i cadaveri dei giustiziati, sul quale abbiamo numerose testimonianze[17], è una trasparente applicazione di questo bisogno di degradazione dell’avversario al rango di bestia.

Il corpo di Ines Versari viene esposto, sulla piazza di Forlì, per alcuni giorni, attaccato ad un gancio da macellaio [18].

V

L’aggressione al cadavere è  l’approdo a un nuovo ordine, caratterizzato dalla violazione delle forme rituali elaborate per rendere accettabile, e comunitariamente condivisa, la morte. E’ una scelta che vuole esibire superiorità, indifferenza, derisione per sentimenti e tabù ancestrali. Gli episodi di aggressione sui corpi  e sui cadaveri divengono sempre più spettacolari, e l’esposizione dei corpi martoriati viene organizzata con regie accurate:

Il tenente Karl fece legare il Campi a una scala di legno. Il Campi sdraiato per lungo, le diverse parti del suo corpo poggiate, aderenti, legate ai successivi gradini.

Così legato, stretto alla scala, ordinò  che il Campi fosse situato lungo il fianco, la parete esterna, la sponda di un camion sì che l’autocarro, passando per una strada, attirasse bene l’attenzione per quella persona lì, per lungo,  legata a una scala.

Allora, il camion uscì dalla caserma di artiglieria. Lentamente attraversò le vie di Belluno, le vie centrali[19].

L’episodio evocato da M. Tobino è emblematico di una pratica “normale”. E’ lecito chiedersi quanto questa prassi sia rivolta ad ottenere uno scopo, quanto appartenga ad una procedura di lucido e “razionale” terrorismo, teso a rescindere ogni legame tra resistenti e popolazione civile, ad ottenere con il terrore di fare terra bruciata intorno alla resistenza armata, e quanto invece sia presente, in queste pratiche, un quid di violenza, di esibizione di ferocia in più, che trova giustificazione solo nel piacere di chi la compie, a prescindere da ogni fine. Anche Tim Mason si è chiesto se il regime di terrore poliziesco tedesco non fu parzialmente fine a se stesso, eccessivo e superfluo come tecnica del potere per produrre paura[20].

Non bisogna infatti dimenticare che nella guerra tra partigiani e occupanti tedeschi, soprattutto quando assume i caratteri di guerriglia di montagna, le direttive generali di Kesselring precostituiscono una dichiarata copertura per  molteplici iniziative personali, in una polverizzazione di episodi locali, determinando una situazione dove l’arbitrio, la possibilità di scegliere tra atteggiamenti molto diversi, è consistente. Anche il recente lavoro di L. Klinkhammer sulle stragi naziste in Italia conferma che gli spazi di scelte individuali, anche per gli ufficiali subalterni, erano considerevoli; con la decisione di Kesselring di coprire comunque e sempre l’opera repressiva della Wehrmacht,  venne ribadito che “la lotta contro le bande richiede duttilità e capacità di adattamento alle singole situazioni”, visto che “le direttive non ordinavano una determinata procedura in modo perentorio, bensì legittimavano esplicitamente una procedura spietata, senza tuttavia richiederla in modo vincolante a tutti i membri della Wehrmacht[21]. Lo stesso Kesselring ricorda nelle sue memorie di guerra  che” le rappresaglie dipendono da un giudizio puramente soggettivo, emesso dal comandante responsabile caso per caso, in base ad un profondo esame di una situazione complessiva[22]. La pratica di impedire il seppellimento delle persone trucidate, benché ampiamente diffusa, non viene mai esplicitata nelle direttive tedesche di cui abbiamo conoscenza, né se ne trova menzione nei bollettini della GNR. Ciò fa appunto pensare che non tanto di regole, di rigide norme antiguerriglia si tratti, quanto piuttosto di una prassi che si diffonde, che sembra appartenere direttamente a questi combattenti (il soldato “la cui vita è insidiata nella maniera più vile, e che vede rosso“, secondo l’efficace espressione di Kesselring[23]), al loro modo di vivere e di divenire dentro questa lotta sempre più disperata.  E’ appunto questo vedere rosso, questa implicazione forte della soggettività dei singoli comandanti subalterni o dei singoli combattenti a non rendere sufficienti, come spiegazione dell’eccesso di terrore, del di più di ferocia cui abbiamo accennato, la sola obbedienza a direttive impartite dall’alto: queste erano certo decisive nel determinare una generale propensione e, nella garanzia di impunità che contenevano, erano un oggettivo incitamento a compiere qualunque mostruosità; incitamento che parecchi ufficiali non raccolsero, ed altri invece, come molti eccidi testimoniano, raccolsero ad usura. Né la situazione di debolezza delle truppe tedesche nella fase finale della guerra, e della precaria esistenza dello stato fascista sembrano spiegazione bastevole, anche se rappresentano un contesto che è indispensabile tenere presente.

Lo splendore dei supplizi evocato da Foucault a proposito dell’antico regime, così come il terrore dell’esempio  che l’insulto ai cadaveri cercava di suscitare secondo E. P. Thompson, sono  evocati da C. Pavone come le antiche forme di ostentazione della propria capacità di punire verso le quali lo stato fascista si vide costretto a regredire dalla propria debolezza[24]. Ma ritengo che spesso vi sia anche dell’altro; non si è di fronte solamente all’applicazione di “norme” e di procedure codificate, a delle scelte  dello stato,  ma alla partecipazione attiva e sadicamente fantasiosa di molte soggettività.

Gli era piaciuto inaspettatamente vedere crollare insieme l’uomo e la sedia. Una piccolezza, ma libidinosa. Riaggiustò accuratamente Jack e lo colpì con tutta la forza rimandandolo lontano a catafascio con la sedia. Sì, valeva la pena di ripetere[25].

Negli esempi sui quali ci siamo soffermati, viene probabilmente superata quella linea, sia pure ambigua, che separa una durezza di comportamenti programmata e imposta dall’alto, da una attiva e prevaricante barbarie soggettiva. E’ su questo secondo aspetto della questione che si ferma la mia attenzione. La ricorrente prassi di imporre per giorni e giorni l’esposizione dei cadaveri, e delle torture inflitte ai corpi, oltre che a creare terrore nelle popolazioni, è rivolta forse anche agli stessi carnefici. Risponde anche ad un bisogno loro.

Notava  Elias Canetti che la presenza fisica del nemico, vivo e poi morto, è indispensabile[26]. I cadaveri degli uccisi devono restare evidenti, visibili agli uccisori, e non solo al popolo. Servono agli uccisori, non solo  come monito ai nemici (e ormai tutti i civili lo sono) ma soprattutto come conferma della propria potenza. Non importa che questi cadaveri non siano sempre di nemici in senso stretto, anzi si tratta spesso, come nei casi di Bovegno e di Cevo che abbiamo citato, di civili passati per le armi con assoluta casualità. Più la potenza dell’uccisore è incerta e scricchiolante, e più necessita di un rinforzo visibile, della evidenza dei nemici uccisi, esorcismo di una fine intuita, temuta, a volte persino invocata.

Disumaniamoci! Dimentichiamo affetti, sentimenti, tutto ciò che riguarda noi stessi (…) Tutto, tutto perisca[27]!

VI

Un quid in più, dunque. Prende corpo, nel corso delle rappresaglie, nell’infierire su corpi vivi, e sui morti come se fossero vivi, un nuovo ordine, l’ordine della ferinità. Né va dimenticato che, per quanto riguarda specificamente i fascisti la coscienza della sconfitta, la subalternità all’occupante, il progressivo isolamento rispetto alla popolazione civile esasperavano queste posizioni (di risentimenti e rivalse, n.d.r.), e nella percezione dei suoi militanti il fascismo repubblicano si alimentava sempre più di tratti vendicatori[28].

Violare l’ordine antico, aggredendo i cadaveri e impedendo i riti della tradizionale pietà, assume qui il valore di una dichiarazione, di una scelta di campo: noi siamo oltre, al di sopra. Prefigura un mondo nuovo, dove sono state azzerate credenze, vincoli comunitari, affetti e tradizioni che nel nuovo ordine non hanno corso; il nuovo ordine è al di sopra dei sentimenti. Non a caso,  quel che intravediamo è un universo dominato da guerrieri, da virtù maschie. Mai come ora virilismo e barbarie hanno marciato insieme. La pietà è, molto più di sempre, virtù femminile. Pietà l’è morta [29]: gli uomini in guerra non ne attendono, né potranno concederne; la pietà pare sopravvivere unicamente come tradizionale e strutturale caratteristica femminile.          

Bertone, bucato malamente, l’hanno finito a colpi di moschetto. E’ irriconoscibile. Una donna del paese (…) ne ricompone la salma, l’avvolge in lenzuola candide, pensa a tutto proprio come una mamma. La sua devozione ci commuove [30].

Si noti che in tutti gli esempi che abbiamo citato, e che potrebbero essere moltiplicati all’infinito, sono sempre delle donne a prendersi cura dei cadaveri, in una ininterrotta riproposizione del ruolo di Antigone. Nella retorica delle Brigate nere, al contrario, non solo non v’è spazio per la pietà, ma nemmeno per le donne. La famosa canzone Le donne non ci vogliono più bene perché portiamo la camicia nera si conclude appunto concentrando tutta la virilità fascista nell’incontro con la ‘Signora Morte’, mentre le donne in carne ed ossa vengono lasciate agli imboscati, effeminati ed incapaci di conquistarle con la violenza[31].

Si può ricordare per inciso che durante la guerra nazionale e “patriottica” del ’15-’18, tra i grandi mutamenti sociali accelerati o determinati dalle esigenze belliche, vi è anche un significativo mutamento nei ruoli e nelle funzioni femminili; da questo punto di vista la Grande guerra rappresenta una tappa  rilevante nel percorso femminile verso l’autonomia e la visibilità sociale. Percorso per altro tortuoso, niente affatto rettilineo. Il periodo fascista coincide in parte con la riproposizione degli stereotipi dell’angelo del focolare, della donna madre e sposa, e soprattutto di prolifica fattrice; la guerra civile a sua volta sembra esaltare e ridare vigore ad archetipi ancestrali,  e tra questi, anche a quello di Antigone. La guerra civile, non meno di quelle tradizionali, resterà in gran parte un “affare di uomini”; alle donne persino il nuovo modello di esercito democratico che si viene elaborando nella resistenza riserverà ruoli magari pericolosi, ma certo secondari.

VII

Il terrore suscitato dal morto quando giace dinanzi a chi lo guarda, è compensato dalla soddisfazione: chi guarda, non è lui il morto (…) il vivo non si crede mai così alto come quando ha di fronte il morto, che è caduto per sempre[32].

Ma, anche, il confronto con il morto è un confronto con la propria morte, meno di essa poiché non si muore veramente, più di essa poiché ce n’è sempre anche un’altra. Anche l’uccisore di professione, che prende la sua insensibilità per coraggio e intrepidezza, non sfugge a questo confronto: in un luogo ben celato del suo animo, anch’ egli si atterrisce[33].

Morire è niente: non esiste. Nessuno riesce ad immaginare la propria morte. E’ uccidere il punto. Varcare quel confine! Quello sì è un atto concreto della tua volontà. Perché lì vivi, in quella di un altro, la tua. E’ lì che dimostri di possedere qualcosa che senti valere più della vita: della tua e di quella degli altri[34].

Vi è un momento, quello degli ultimi giorni di guerra, in cui la violenza in eccesso non può più in nessun modo essere interpretata come un metodo, magari eccessivo e controproducente, per ottenere uno scopo. Che interesse può avere una brigata nera alla fine della guerra a dissuadere diserzioni e passaggi ai partigiani, con metodi terroristici, ricorrendo a sevizie e mutilazioni? Chi strazia i cadaveri dei partigiani ancora nell’aprile del ’45, quando ormai la sconfitta non solo è certa, ma imminente, non può dubitare che la barbarie e i dolori perpetrati fino alla fine innalzeranno anche il conto che gli imminenti vincitori gli presenteranno fatalmente.  Dunque a che pro infierire, se non per preparare per sé una analoga morte. Penso, tra gli altri, alle violenze inenarrabili perpetrate sui cadaveri dei partigiani della 122a bgt. Garibaldi, catturati dopo la battaglia del Sonclino (Valtrompia, Brescia), che è del 19 aprile 1945,  quando già la sconfitta è certa. Anche qui,  molti ambienti del fascismo locale, politico e militare, hanno già cercato, a questa data, agganci, patteggiamenti, in vista della resa inevitabile e prossima. L’accanimento sui prigionieri e sui caduti è quanto mai lontano da un razionale disegno di terrorismo, e sempre più vicino ad un orgiastico cupio dissolvi. Incrudelire barbaramente a pochi giorni dalla immancabile sconfitta, non è forse apparecchiare anche per sé qualcosa di simile, riaffermare una totale inclemenza anche verso di se stessi? Forse per molti anche il confronto con la propria morte è divenuto impietoso, ferino.

VIII

E dappertutto la guerra ha diffuso una facile crudeltà, una crudeltà inconsapevole e piatta che è la peggior linfa dell’uomo.  L’orribile senso del gratuito, dell’omicidio non necessario. Tolti i ritegni diviene consuetudine uccidere e punire è diventato un esercizio. L’orrenda debolezza dell’uomo è venuta fuori, la debolezza dell’uomo che può comandare[35].

Quel “di più” di violenza, “quel di più del quale i reduci di tutte le guerre preferiscono in genere non parlare[36], tende naturalmente  a travasarsi da un campo all’altro.

E’ di gran lunga soprattutto nel campo nazi-fascista che l’orribile senso del gratuito, l’“imbestiamento” segnano sempre più la guerra . E’ anche evidente, come Claudio Pavone non manca di rilevare, che nemmeno i partigiani resteranno del tutto immuni dall’emergere dell’orrenda debolezza dell’uomo. Potrebbe negarlo solo una visione eroicistica della resistenza, disposta a immaginare partigiani più simili ad astrazioni retoriche che a uomini: partigiani che non parlano anche davanti alle più efferate sevizie, partigiani che non cadono mai nell’uso gratuito della violenza, nella reificazione dell’avversario.

Il partigiano Polo di Fenoglio è appunto l’espressione, epicizzata, di un attegiamento verso la lotta, il sangue, la morte, che è certamente fuoruscito da progetti e comportamenti razionali, nel suo dare fiato a una terrificante esplosione di dolore per un compagno ucciso: ucciso come i vostri conigli .

Fu allora che salì al cielo come un razzo un urlo che inorridì quanto Tito, tutti. Era Polo, il partigiano contadino, che nel bel mezzo della piazzetta, si era inarcato sui ginocchi, e si rimboccava le maniche e pendeva con la testa scarruffata su di un immaginario catino- Hanno ammazzato Tito, che era il nostro compagno! Voglio lavarmi nel loro sangue. Voglio lavarmi fin qui,- e indicava i bicipiti ed ora si lavava, con orribile naturalezza[37].

Lo stesso episodio è presentato nel racconto intitolato “Golia”, con alcune interessanti varianti, che danno più risalto alla ferinità di Polo

s’alzò un urlo selvaggio e come molteplice (…) era soltanto Polo. I capelli serpentini gli ingraticciavano la faccia, lucente per pianto o sudor freddo, e degli occhi gli si vedeva solo il bianco [38].

La guerra di liberazione è guerra civile, non solo perché è guerra ideologicamente caratterizzata, dove si scontrano membri della stessa comunità nazionale, ma anche nel senso di guerra più intima, interna ad ogni combattente, fra umanità normale, che conserva almeno il rispetto dei più radicati tabù, e la violazione della norma, l’ infrazione del tabù. L’accumulo di ferocia, di tragedia che gli anni della seconda guerra hanno  sedimentato può essere controllato, incanalato, o può essere trasformato esso stesso in valore, in norma. Ed è anche nell’animo di ogni singolo combattente che si gioca quindi una partita, mai definita una volta per tutte, tra civiltà e ferinità, tra presa di distanza dalla violenza gratuita, ed esaltazione della ferocia come valore in sé.

La violenza come seduzione e la violenza come dura necessità si scontrarono così in modo palese, pur convivendo talvolta nelle stesse persone [39].

E’ possibile allora che si confondano fino a sparire, sia pure momentaneamente, motivazioni e atteggiamenti eticamente fondati di fronte a impulsi violenti e primordiali, che la durezza della lotta per la sopravvivenza porta ad emergere. Mi pare che nessuno abbia raccontato con l’efficacia di Beppe Fenoglio questo imprevedibile inabissarsi in un vortice di rosso furore, tanto ignoto da lasciare esterrefatto, disarticolato prima di tutto lo stesso protagonista.

Lo colpirono allo stomaco ed il rosso rinculò e cadde sulla schiena e Johnny gli volò sopra e lo coperse tutto. Lo picchiava con una cecità lucida, esattissimamente sugli occhi e sulla bocca. Mai s’era sentito così furioso e distruttivo, così necessitante dell’odio e del sangue, bisognoso di altro sangue e di altre deformazioni proprio mentre il sangue spicciava e la deformazione si delineava. E per il prossimo colpo aggiustava con una cura feroce la testa dopo che il colpo prima l’aveva torta. E gridava che voleva ridurgli la faccia in poltiglia, e lavorava a quel fine con una lucida selvaggità. Da remote regioni raggiungevano le sue assanguate orecchie le voci interrene di Ettore e di Pierre, dicentigli che bastava, l’avrebbe ammazzato con pochi pugni ancora, che bastava ora davvero! Ma Johnny colpiva ancora, e rispondeva con amichevole acquescenza: – Non lo uccido, state tranquilli, gli faccio solo perdere per sempre i connotati umani. (s.m.)

Allora lo strapparono da sopra quella cieca e sanguigna maschera e da quella bocca sibilante e rantolante e da quel  tronco immoto, come trafitto, e Johnny a stento si reggeva in piedi, affranto da mortale stanchezza e da imprecedentata vergogna. Sicché fu un disarticolato automa ed il più arrossente dei pellegrini che si trascinò, dietro i muti Ettore e Pierre verso il pacifico paese di Castagnole[40].

IX

In questo Johnny ritroviamo “l’orrenda debolezza dell’uomo” di cui parlava Pintor. La debolezza “dell’uomo che può comandare“, dove il poter comandare è da intendersi come comando sulla vita altrui. Nel caso di Johnny, la lucida selvaggità, il desiderio di ‘disumanare’ l’avversario, si converte quasi immediatamente in imprecedentata vergogna. Il tuffo in remote regioni, dove l’unica voce nitidamente percepibile è quella di un io finora insospettato, così necessitante dell’odio e del sangue, bisognoso di altro sangue e di altre deformazioni, lascia Johnny nello stato di disarticolato automa. Il tentativo di disumanare, di far  perdere per sempre  connotati umani, disarticola in primis l’umanità di Johnny. L’esplosione di Johnny, originata apparentemente da una provocazione tutto sommato lieve, di un “rosso”, un partigiano delle Garibaldi, è prima di tutto lo sfogo, tanto più furioso quanto più fin qui trattenuto, della paura.  Paura della propria morte, attesa come ineluttabile in interminabili giorni di rastrellamento.

Canetti ha parlato del “piacere intensivo“, del “senso di felicità del sopravvivere concreto“, connessi all’esperienza della morte del proprio avversario. Egli descrive queste sensazioni come un frutto velenoso, senza antidoti e senza appelli. Questo piacere sarebbe tale  che “una volta subentrato, esso esigerà  la sua ripetizione e crescerà rapidamente fino a divenire una passione insaziabile[41].

In questa direzione, nello sviluppo e nell’iterazione di  questo piacere vanno probabilmente collocati molti dei comportamenti di disumanizzazione totale che abbiamo osservato attraverso gli esempi di “morte profanata” presi in considerazione, senza però dimenticare l’improponibilità dell’applicazione a comportamenti umani di uno schema interpretativo troppo rigido, quale diviene, almeno nella nostra estrapolazione, quello di Canetti.  La necessità della ripetizione non è  così automatica, né obbligata; tra le possibili varianti, vi è anche quella raffigurata nella vicenda del partigiano Johnny. La sua esperienza dell’abisso, della sanguinosa follia, non verrà ripetuta; anzi, il ritorno ad una dimensione umana, ad una consapevolezza dell’abisso di brutalità che il protagonista aveva iniziato a sondare, immediatamente si traduce nella più grande vergogna mai provata, e nel tremito di una paura terribile, quella di aver perso la propria umanità, le sue più profonde radici, riconoscendo in sé la voglia di disumanare, di “togliere i connotati umani” al proprio avversario. Ma per Johnny-Fenoglio non ci sarà iterazione dell’orrendo piacere, e anzi sarà il più arrossente dei pellegrini a trascinarsi verso  il pacifico paese di Castagnole, trasparente metafora del ritorno alla vita, alla buona vita degli uomini.

[1]              G. VALDEVIT, Foibe: l’eredità della sconfitta, in G. Valdevit, a c. di, Foibe. Il peso del passato. Venezia Giulia 1943-1945, Venezia, Marsilio, 1977, p. 17.

[2]              BEPPE FENOGLIO, Opere, Torino, Einaudi, 1978, vol.1°, III, Frammenti di romanzo, p.1685.

[3]              M. TOBINO, Tre amici,  Milano 1987, p. 93.

[4]              P. GEROLA, Cronache partigiane in Val Trompia, in La resistenza bresciana, n. 8, 1977.

[5]              Si tratta di quattro montanari passati per le armi dai rastrellatori fascisti a caccia di disertori in Valsaviore, Brescia. La citazione è tratta dal diario di Don Murachiello, parroco della zona, riportato in A. BELOTTI, Le bande antiribelli in Valsaviore e l’incendio di Cevo, in La resistenza bresciana, n. 5, 1974, p. 23.

[6]              Dal diario di Giacomo Matti, riportato in A. BELOTTI, Le bande.., cit., p. 23.

[7]              C. PAVONE, Una guerra civile., cit., p. 415.

[8]              Com’è noto, l’Arma dei Carabinieri, ritenuta inaffidabile dai tedeschi per le molte defezioni e le numerose scelte di campo partigiane, nell’agosto ‘44 viene  liquidata, ed i carabinieri non  ancora trasferiti in Germania messi in congedo. Cfr. G. PANSA, Il gladio e l’alloro. L’esercito di Salò,  Milano, Mondadori, 1991, pp. 95-106.

[9]              P. GEROLA,  Nella notte ci guidano le stelle, Brescia, 1987, p. 141.

[10]            Si tratta di un massacro di diciassette civili rastrellati e passati immediatamente per le armi il 15/8/1944 nel paese di Bovegno (Brescia), dove vengono anche date alle fiamme numerose abitazioni. Cfr. P. Gerola, Nella notte, cit., p. 1O6. La sottolineatura, in questa e nella citazione alla nota n. 9, è mia (s.m.).

[11]            Dal diario di G. Matti, in A. BELOTTI, Le bande ribelli..cit., p. 37.

[12]            Fenoglio, Opere, cit, vol.1°, III, Frammenti di romanzo, p. 1686.

[13]            N. REVELLI, La guerra dei poveri, cit., p. 275. Nella guerra di sterminio praticata dalle truppe tedesche nei paesi dell’Est, le linee direttive generali della lotta partigiana, comunemente indicate come Merkblatt 69/1 (11/11/1942), benché dessero chiaramente mano libera a qualunque forma di eccidio coinvolgente anche donne e bambini, non prevedevano, almeno nell’esposizione che ne fa L. Klinkhammer, la pratica , divenuta invece “tradizionale”, dell’esposizione dei cadaveri. Probabilmente è uno dei tanti aspetti che le generali disposizioni lasciavano alla libera inventiva dei comandanti locali. Cfr. L. KLINKHAMMER, op. cit, passim.

[14]            P. LEVI, Se non ora, quando?, in Opere, vol. II, Torino, Einaudi, 1988, p. 205.

[15]            J. AMÉRY, op. cit., pp. 81-82.

[16]            B. FENOGLIO, Opere, cit., vol. 1°, III, Frammenti di romanzo, p.1662.  Chi parla è un soldato repubblichino, rivolto a un partigiano che viene poi torturato, fucilato e gettato in un immondezzaio.

[17]            Anche nei “Piccoli maestri” di Meneghello, e nel film che Daniele Luchetti ne ha tratto nel 1998, vi è l’agghiacciante comparsa dei ganci, utilizzati in quel caso dai partigiani. La vocazione antiretorica del film non ne ha, ovviamente, facilitata la presa sul pubblico italiano, notoriamente refrattario alla riflessione sulla propria storia.

[18]            M. MAFAI, Pane nero. Donne e vita quotidiana nella Seconda guerra mondiale, Milano 1987, p. 232.

[19]            M. TOBINO, Tre amici, cit., p. 91. L’episodio a cui Tobino fa riferimento si svolse in realtà in modo abbastanza differente; ma altri episodi, nel Bellunese, si svolsero secondo dinamiche e in un ” clima”  simili a quelle evocate da Tobino. Sul senso di utilizzare fonti letterarie  attendibili benché inesatte,  rinvio alle considerazioni in apertura di questo saggio.

[20]     T. MASON, Resistenza non organizzata delle masse. Scioperi nell’Italia fascista e nella Germania nazionalsocialista, cit., p. 55.

 

[21]            L. KLINKHAMMER, op. cit., pp. 51-52.

[22]            A. KESSERLING, Memorie di guerra, Milano, 1954, p. 262; questa affermazione appare realistica, pur senza ovviamente dimenticare l’intenzione auto-assolutoria che memorie di questo tipo inevitabilmente possono contenere.

[23]            A. KESSERLING, Memorie, cit., p. 262.

[24]            C. PAVONE, Una guerra, cit., p. 436.

[25]            B. FENOGLIO, Opere, vol. 1°, III, cit. , p. 1678-9.

[26]            E. CANETTI, Potere e sopravvivenza,  Milano, Adelphi,  1979, p.18.

[27]            Da una lettera di un repubblichino diciannovenne, citata in C. PAVONE, Una guerra, cit, p. 432.

[28]            G. OLIVA, I 6OO giorni di Salò, Firenze, Giunti, 1996, p. 28. Ancora CANETTI ricorda che, già prima del 25 luglio,  “Mussolini parlando con Ciano dichiara il suo popolo uno spregevole branco di pecore, della cui vita naturalmente non gli importa”. Cfr. E. CANETTI, Potere..., cit., p. 25.

[29]            “Combatte il partigiano /la sua battaglia / tedeschi e fascisti/ fuori d’Italia/Tedeschi e fascisti/ fuori d’Italia/ gridiamo a tutta forza/ “Pietà l’è morta” “. Sono i versi conclusivi della canzone partigiana Bandiera nera, composta da N. Revelli nella primavera del ’44. cfr. N. REVELLI, La guerra.., cit., p. 169.

[30]            N. REVELLI, La guerra…, cit., p. 287.

[31]            C. PAVONE, Una guerra…, cit., p. 432.

[32]            E. CANETTI, Potere.., cit., pp. 13-14.

[33]            Ibidem, p. 13.

[34]            C. MAZZANTINI, A cercar la bella morte, Milano I986, p. 136, cit. in C. Pavone, Una guerra, cit., p. 431.

[35]            Dal Doppio diario di Giaime Pintor, cit. in C. PAVONE, Una guerra, cit., p. 416-17.

[36]            Ibidem, p. 427.

[37]            B. FENOGLIO, Opere, cit, vol. 1°, II, Il partigiano Johnny,  p. 493.

[38]            B. FENOGLIO, Opere,  cit., v. II, Un giorno di fuoco, p. 559.

[39]            C. PAVONE, Una guerra  cit., p. 416.

[40]            B. FENOGLIO, Opere, cit.,  v.1°, II, Il partigiano., cit., p. 782.

[41]            E. CANETTI, Potere e sopravvivenza, cit., p. 21.

 

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