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In difesa della psicoanalisi

letteredi Claudio Widmann

Profondità versus superficialità

Provengo da una nidiata di fratelli. Nell’intreccio relazionale tra cuccioli ho sperimentato il bipolarismo della psiche e le opposte destinazioni della pulsione: rivalità e solidarietà, competizione e collaborazione, intransigenza e accondiscendenza. Ho conosciuto anche quel curioso, sorprendente fenomeno grazie al quale inestinguibili lotte intestine venivano immediatamente sospese appena si profilava l’attacco di un aggressore esterno (estranei, compagni, cugini o -più spesso- gli stessi genitori): improvvisamente, tra i contendenti di un attimo prima scattava un’intesa tacita e spontanea, una protezione reciproca e generosa, una coalizione solidale al limite di un’infantile abnegazione. Ho un debito di gratitudine verso tutti gli aggressori della nidiata (variamente innocui), perché mi hanno consentito di esplorare i risvolti più costruttivi dell’affratellamento.

in difesa della psicoanalisiLa tonalità emotiva dell’affratellamento mi risuona in sottofondo nel leggere In difesa della psicoanalisi (Einaudi, 2013), opera leggera e profonda di Argentieri, Bolognini, Di Ciaccia e Zoja, psicoanalisti di diversa matrice (freudiana, lacaniana, junghiana), che non illustrano le diversità delle rispettive correnti di appartenenza, ma con diversità di impostazione esaltano la comune appartenenza alla psicoanalisi. C’è un tempo per la differenziazione e un tempo per l’apparentamento; questo volume è luogo di apparentamento, dove diverse anime della psicoanalisi si riconoscono “affratellate” in una psicologia del profondo, che è implicitamente una psicologia della profondità e accomunate da una forma mentis che non si arresta alla superficie dei fenomeni, per non scadere nella superficialità.

Questo volume a più mani leva una voce autorevole contro l’offensiva di psicologie e pseudo-psicologie che intendono imporre il monopolio scientista ed espressamente cognitivo-comportamentale nell’ambito della psicoterapia. Con sinergismo coeso, ma perverso assumono i criteri statistici a garanzia di scientificità, elaborano sistemi diagnostici fondati su ricorrenze statistiche, progettano strumenti mirati a incidere sulla configurazione statistica che sorregge quella diagnosi e infine conducono validazioni statistiche che certificano l’efficacia di quegli strumenti. Il procedimento è lineare quanto autoreferenziale, perché si fonda su equivalenze indiscusse, ma discutibili dove misurabilità = scientificità e scientificità = verità. All’apparente linearità di questa logica, Bolognini provocatoriamente ribatte che, sebbene il nuoto possa essere studiato dal punto di vista delle leggi fisiche sul galleggiamento dei corpi, sulla contrazione delle fibre nel lavoro muscolare ecc., il luogo più adatto per mandare i ragazzini a imparare a nuotare (perfino i figli di un fisico o di uno psicologo cognitivo-comportamentale) è una piscina e non l’Istituto di Fisica. (op. cit. p. 35).

Sullo sfondo degli attacchi alla psicoanalisi e di questo volume si agita il dibattito filosofico, da un lato, sulla scientificità della psicologia e, dall’altro, sulla realtà della psiche. Apparentemente si tratta di teoresi pura, di speculazioni astratte che occupano le menti degli accademici, ma non interessano l’operatività degli psicologi impegnati “sul campo”. Di fatto, questo dibattito ha conseguenze pratiche molto concrete, che si rendono evidenti quando – per esempio – una psicologia che si auto-definisce scientifica tenta manu militari di introdurre nelle linee-guida ministeriali l’approccio cognitivo-comportamentale quale unico metodo atto al trattamento dell’autismo, in quanto la sua efficacia è scientificamente “provata” a differenza di quella di altri metodi. L’occasione contingente che indusse gli Autori a redigere questa Difesa della psicoanalisi fu proprio uno dei tanti, spregiudicati attacchi contro l’approccio psicoanalitico al trattamento dell’autismo, di cui il British Medical Journal si fece portavoce e di cui Zoja fornisce riferimenti molto puntuali (op. cit. p. 108). In nome di una presunta “scientificità”, una certa psicologia si scaglia da tempo e con arroganza contro quelle che non chiama nemmeno scuole, ma “sette psicoanalitiche”; forte della potenza istituzionale che deriva dalle investiture accademiche, forte dell’onnipresenza mediatica di neurologi che approvano o censurano metodi psicoterapeutici, forte del potere economico che trasuda dalla complementarietà con le multinazionali degli psicofarmaci, forte di connivenze politiche per l’accesso a finanziamenti pubblici, questa psicologia non esita ad affermare apoditticamente: Psychoanalysis can seriously

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damage your Health. Argentieri, Bolognini, Di Ciaccia e Zoja rispondono all’arroganza di siffatte asserzioni “scientifiche” con elegante fair play, che con buona probabilità non verrà capito, ma che sollecita riflessioni profonde in chi predilige la profondità.

La verità dei numeri

Una letteratura ormai sterminata, in un arco di tempo che supera il secolo distingue due tipi di scienze: le scienze naturali (Naturwissenschaften, Hard Sciences, scienze esatte, scienze dell’oggettività o altrimenti dette) e scienze umane (Geistwissenschaften, Soft Sciences, scienze morali, scienze della soggettività o simili). Molta epistemologia moderna considera “scienze” entrambe, evidenziando che non differiscono per spessore di scientificità, ma per il tipo di fenomeni che meglio riescono a indagare.

Zoja (op. cit. p. 85) recupera due termini filosofici classici per illustrarne la differenza: le scienze esatte -dice- cercano di “chiarire” (erklären), quelle umane cercano di “comprendere” (verstehen); le prime sono maggiormente atte a individuare le cause, le seconde ad afferrare il senso degli accadimenti. Bolognini (op. cit. p. 36) non rifugge da un’ulteriore, graffiante provocazione per illustrare in maniera inequivocabile il concetto: le scienze dell’oggettività -dice- andrebbero a ricercare la spiegazione “scientifica” dello sterminio di milioni di ebrei negli effetti di gas tossici assunti in dose letale; le scienze della soggettività la ricercherebbero nel fenomeno sociale, morale e spirituale del nazismo. Questo esempio traccia nitidamente la distinzione tra “scienze naturali”, come la biochimica e “scienze umane”, come la sociologia o la psicoanalisi nell’indagare le condotte dell’uomo: le hard sciences intendono “chiarire”, le soft sciences intendono “comprendere” come morirono milioni di persone.

L’epistemologia ha così lungamente sviscerato la questione che ogni argomentazione risulterebbe ripetitiva; solo una domanda rimane inesplorata: Perché le scienze esatte sembrano più “scientifiche” delle altre? Perché le scienze hard sono ritenute “Scienza” per antonomasia e chi le predilige (o le idealizza) squalifica -a volte con arroganza- quelle soft?

In modo assolutamente circostanziato Di Ciaccia (op. cit. p. 61)

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ci ricorda che per Galileo “il libro della natura è scritto in lingua matematica”, ponendo una premessa all’ipotesi che le scienze naturali siano più scientifiche di quelle umane perché scritte in alfabeto numerico. In effetti, il numero possiede una forza intrinseca, una “potenza numinosa” (categoria non contemplata dalle scienze dure), che conferisce un alone di verità, oggettività e certezza a tutto ciò a cui si applica. Non è senza causa che la più bevuta delle bibite gasate si pubblicizzi raccontandosi per numeri: “per ogni canto razzista, 80 milioni di persone cantano una canzone d’amore”; non è senza significato che perfino le menti più umanistiche debbano fare uno sforzo per cogliere la letterale falsità di affermazioni quali “0,5 italiani mangiano un pollo in settimana” o “9,2 alunni per classe sono extra-comunitari”; non è senza esiti fatali che la crescita dello spread o una flessione di percentuali nei sondaggi modificano la vita di milioni di persone.

numeriOccorre ammettere che da secoli l’umanità patisce il fascino e in qualche caso la possessione del Numero; nessuno di noi può esentarsi dall’essere identificato con il numero di casa o di telefono o di conto corrente o di matricola o di PIN; e nei carceri, nei manicomi, nei lager o negli uffici dell’ordinaria burocrazia, dove si depriva cruentamente l’uomo della sua identità, non si riesce a deprivarlo di un numero. Jung diceva che se si priva un oggetto di tutte le qualità (dimensione, consistenza, colore e qualunque altra), rimane il numero come sua proprietà elementare e inalienabile. Il numero appartiene all’essenza, all’intrinseco, all’immateriale, a quella categoria che sia la filosofia sia il linguaggio comune chiamano spirito. Per Pitagora come per Giamblico il numero è dello spirito; non solo è divino, ma è “il divino”, non solo è dei numi, ma è “numinoso”. Nel linguaggio della psicologia analitica, i numi e le proprietà che essi assumono nei miti di tutte le culture (le loro proprietà numinose!) corrispondono agli archetipi. Il Numero, dunque, è un archetipo e in quanto tale possiede un’incoercibile potenza, esercita un potere despotico, impone la propria signoria su uomini spesso ignari e -come tutti i numi- ama la venerazione. Una scienza che venera il Numero, che crede alla sua intrinseca oggettività, che professa la sua incontestabile verità, che porta i numeri a testimonianza di verità e ricorre alla prova dei numeri come un tempo si ricorreva al “giudizio di Dio” non differisce troppo da antiche e nuove religioni. E, com’è frequente per le religioni, ritiene di essere unica e oggettiva, è certa di attingere direttamente alla verità assoluta, coltiva l’a-scientifica certezza di possedere un fondamento evidente (evidence based!) e condanna tutti gli altri sistemi di pensiero come ingenue credenze in “idoli falsi e bugiardi”. La signoria del Numero è crescente e non di rado culmina nell’autocrazia.

Anche la psicologia del profondo è evidence based, ma la sua evidenza non riposa sulla numinosità del Numero; ricerca una verità assoluta, ma si tratta di una “verità narrativa” (Spence), che giace nella soggettività dell’individuo e non nell’oggettività delle misurazioni; il reale di cui parla la psicoanalisi non è quello di cui si occupano le scienze esatte, nella non ingenua convinzione che il mistero dell’individuo stia nel suo essere un unicum e non nella possibilità di essere standardizzato. La psicologia del profondo è consapevole che, così facendo, si espone al rischio dell’emarginazione: non rispondendo ai criteri dominanti nello spirito collettivo, non occupa posizioni dominanti nelle facoltà di psicologia, non viene avvallata dagli “esperti” televisivi (che nei casi più emblematici non hanno nemmeno competenze psicoterapeutiche), non possiede monumentali bibliografie in med-line; soprattutto: non è funzionale ai numeri economici (figli diletti del Numero archetipico) di assicurazioni private ed enti pubblici. Per queste ed altre ragioni c’è chi prevede la morte di ogni psicologia analitica e chi, per scongiurarne la fine, auspica ricerche che ne comprovino la scientificità, indagini statistiche che ne confermino l’efficacia, studi rigorosi che superino le valutazioni dei referee delle medlines.

Direbbe Guccini: “Ed è una morte un po’ peggiore”. Non che tutto ciò non si possa fare, ma prima di tutto ciò va riaffermato che la psicoanalisi e ogni psicologia ad essa “affratellata” non si trovano davanti all’opzione tra scienza e non-scienza, bensì tra scienze di tipo diverso e di pari rigore; che le psicologie analitiche appartengono alle scienze dello spirito e non alle scienze naturali; che è ambizione delle scienze dello spirito coltivare una relazione il più cosciente possibile con le forze dello spirito e non assoggettarsi inconsapevolmente al loro strapotere archetipico. La ricerca costante di un’autoconsapevolezza per quanto possibile “profonda” rimane una qualità non secondaria che segna il distinguo tra la psicologia del profondo e le psicologie pragmatiche, strategiche, cognitivistiche, comportamentali e simili. Non va quindi trascurata la riflessione di S. Argentieri: la “ricerca empirica” con il suo apparato (quasi liturgico) di questionari, scale numeriche e griglie computerizzate più che compensare la pretesa debolezza epistemologica delle psicoanalisi rischia di snaturarne la qualità (op. cit. p. 16).

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realtà della psiche

E’ ancora S. Argentieri (op. cit. p. 17) che trova confortante costatare che l’architettura concettuale della psicologia del profondo si rivela compatibile con le più attuali acquisizioni delle neuroscienze. Confortante, non determinante.

Un dibattito anche più lungo di quello sulla “scientificità” delle psicoanalisi riguarda il mental-body-problem (MBP), che non investe solo la relazione mente-corpo, ma lo statuto stesso della mente (variamente denominata corpo sottile, anima, psiche ecc.) e del corpo (chiamato anche fisico, soma e perfino, semplicemente, cervello). I corni della dialettica sono relativamente semplici: per taluni body è il braccio operativo della mente, per altri mind è un’emanazione del corpo. In determinati momenti storici e culturali la realtà dell’uomo venne collocata nell’anima, che agirebbe il corpo in funzione di propri moti assolutamente spirituali; in altri momenti l’uomo “è” il corpo e l’anima sarebbe il prodotto di processi fisici altamente raffinati. Anche nell’ambito del mental-body-problem una delle due categorie (quella del corpo) si presta più dell’altra a essere indagata con i metodi delle scienze naturali, con il risultato che un’euristica fisico-fisio-neuro-bio-chimica è più accline a una certa “scientificità” rispetto a un’euristica psicodinamica o psicoanalitica. Per questo la posizione dei “fisicalisti” oggi tende a prevalere su quella degli “spiritualisti” anche se un accurato e non ancora superato studio di Sergio Moravia (L’enigma della mente, Laterza, 1986) mostra le incongruenze degli “apparenti vincitori” e riabilita la voce di “alcuni vinti”.

Tutto ciò che le vicende del MBP dimostrano con chiarezza è che l’uomo è un essere antinomico, che tende a pensare per antinomie e che ha una grandissima difficoltà a superare la logica dualistica; perfino il concetto di unità bio-psichica viene frequentemente inteso come “organismo fisico che produce eventi psichici” e la nozione di psicosomatica viene fraintesa come “vicenda psichica con esiti fisici”. La descrizione secondo cui i processi biochimici del cervello “producono” accadimenti psichici (che per il televisivo prof. Sorrentino vanno dagli attacchi di panico al femminicidio) non è più fondata di un’opposta descrizione, secondo la quale eventi psichici (vissuti di perdita, chiusura narcisistica o altro) innescano una necessaria e specifica attività neuro-biologica (senza la quale non si danno né attacchi di panico né femminicidi).

brainIl sostrato body di ogni esperienza mind è scontato. Ma nell’immaginare l’uomo come una totalità, la psicologia del profondo non intende ridurlo a un cervello che produce pensieri o sentimenti come una ghiandola secerne ormoni. La sfida è quella di immaginare un’autentica unità, che si esprime in maniera coerente attraverso manifestazioni sa fisiche sia psichiche. Da questo punto di vista il concetto di archetipo è un costrutto teorico efficace, perché è concepito come uno spettro d’onde, che all’un polo (diciamo: quello infrarosso) si traduce in fenomeni fisici, somatici, istintuali ecc. e all’altro polo (figurativamente: quello ultravioletto) si traduce in fenomeni psichici come immagini, rappresentazioni, pensieri ecc. Ma sono costrutti egualmente efficaci i concetti di libido, di pulsione, di proiezione e molte altre strutture portanti dell’edificio concettuale psicoanalitico.

Occorre dire che i neuro-scienziati sono tendenzialmente cauti nel ritenere di offrire spiegazioni ai fenomeni complessi dell’esperienza umana e che le neuroscienze si propongono spesso come complementari e non come alternative alle psicologie analitiche. Il rischio viene da una psicologia accline al “pensiero unico dell’ideologia scientista” (Di Ciaccia op. cit. p. 72) che utilizza le acquisizioni delle neuroscienze per svuotare la psicologia della sua stessa essenza. “Spiegare” lo specifico umano come il prodotto di attività neurobiologiche, difatti, schiaccia il polo psichico su quello fisico, fino a farlo coincidere, riduce la dinamica della psiche ai processi della materia e materialisticamente disconosce la realtà dell’anima. Se “psicologia” significa “disciplina che studia l’anima” (psyche), una psicologia senz’anima costituisce una curiosa contraddizione in termini.

La psicologia del profondo non può aderire a un riduzionismo che deprivi la psicologia né della psiche-anima né del logos-parola: l’intera, incessante evoluzione della psicoanalisi è alimentata dal bisogno di descrivere con parole via via più raffinate e in forme sempre più efficaci le vicende intime dell’anima (Mc Williams). Nel colloquio clinico, nella rievocazione della mitologia personale o collettiva, nella descrizione psicodinamica, nella teoresi psicoanalitica la parola gioca un ruolo centrale e spesso è una parola altamente differenziata, sofisticata, poetica. Nell’ambito della psicologia il “discorso” non è mai accessorio e le “parole per dirlo” sono uno strumento integrabile, ma non rinunciabile soprattutto per esplorare i certi segmenti “ultravioletti” dell’unità biopsichica; sono parte sostanziale di un processo attraverso il quale in non-dicibile sta in relazione con il mai detto e in qualche caso diventa pronunciamento. Le psicoanalisi di diversa impostazione sono accomunate dalla convinzione che solo la parola (quella parola che trova rappresentazione simbolica nella “parola magica” o nelle creazioni per verbum) sappia penetrare con incisività le increspature dell’anima.

Almeno per questa ragione una psicologia che vuole essere del profondo non sa concepire una psicologia senz’anima e preferisce una psicologia della parola a una psicologia dei numeri.

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La Società di Psicoanalisi critica promuove lo studio, la ricerca e la formazione nel campo della psicoanalisi di Freud e di coloro che dopo di lui ne hanno continuato l’opera.
Vuole valorizzare gli aspetti teorici e clinici che fanno della psicoanalisi una scienza che indaga le forze psichiche operanti nell’uomo, in quanto singolo individuo e negli uomini, nelle loro aggregazioni sociali.

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