Il destino, la violenza e la natura in Cornac McCarthy
(pubblicato su: http://rivista.overleft.it/)
Il destino, la violenza e la natura in Cornac McCarthy. Contrappunto con il mito dell’Ovest americano.
di Adriano Voltolin
E’ abbastanza ovvio che l’opera di Mc Carthy vada inserita nella grande epopea dell’Ovest americano: vi appartiene in quanto ne appare l’ultimo grande cantore, quasi un controcanto letterario di Sam Peckinpah e dell’ultimo Clint Eastwood; con maggiore consapevolezza di questi, sembra però indicare lo scioglimento in senso catastrofico, negli Sati Uniti del ventesimo secolo, dell’ambiguità da sempre insita nell’uomo della frontiera. Della guerra di secessione, la cultura americana più superficiale ha ripreso i temi dell’antirazzismo e del progresso ed ha confinato dalla parte del Sud al più qualche romanticheria fuori tempo, oltre all’arretratezza industriale ed ideologica . L’Ovest, storicamente, era abbastanza distante dall’ideologia del capitalismo dell’Est e la raffigurazione cinematografica e letteraria del suo mito si situa sempre in un’area di incertezza che assume talvolta toni reazionari e melensi, come nel bruttissimo – ma celeberrimo – Gone with the wind (Via col vento è il titolo del distributore italiano) di Victor Fleming, ma anche caratteri di interrogazione più autentica in John Ford.
Cormac Mc Carthy appare l’estremo limite di Ford, la dissoluzione di un’era storica ed ideologica che è presentata dal primo, ma che trova i propri germi già nei lavori del secondo. Se Mc Carthy appare come la verità hegeliana di Ford, questi è, in termini psicoanalitici, il contenitore solo parzialmente consapevole della catastrofe cui giunge il lavoro di Mc Carthy. I grandi eroi della maturità di Ford come il John Ethan di The searhcers (Sentieri selvaggi) o il Tom Doniphon di The man who shot Liberty Valance muoiono e sono destinati a morire perché possano prenderne il posto altri uomini, come l’avvocato Ransom Stoddard, che non usano più le armi per imporre la legge, ma le legge per imporre la vita civile. Stoddard è consapevole della necessità storica di Doniphon ed il suo impegno è portarne avanti l’idea democratica di fondo del lavoro che aiuta ad uscire dalla povertà ed a creare una vita più serena: che gli Stoddard poi soccombano di fronte a politicanti e affaristi privi di scrupoli, banditi che non usano più le pistole come legge, ma la legge come una pistola, è cosa che certamente è fonte di rammarico per Ford. Colui che è realmente vincente non è Doniphon, ma nemmeno Stoddard: sono, per dirla con Nietzsche, i culi di pietra di Washington che demonizzano tutto ciò che è distante dal loro modo di concepire il mondo ed il progresso o i piccoli affaristi di provincia voraci e caricaturali, due categorie ritratte in Cheyenne Autumn (Il grande sentiero), l’ultimo western di Ford di cui Morandini dice un affresco autunnale, una battaglia di retroguardia, non priva di grandezza .
Mc Carthy, come tutti gli autori capaci di grandi narrazioni, come le chiamerebbe Franco Romanò, tocca tanti temi, ma ci pare, per riuscire a mostrare, in un lavoro di contrappunto con il mito della frontiera, che le questioni relative alla violenza, alla natura ed al destino possano raggrumare una serie di temi che oggettivamente pare di poter penare convergenti su questi. Partiremo dall’ultimo, il destino, perché ci consente di cogliere il senso del viaggio e dell’educazione sentimentale dei giovani che si inoltrano, a cavallo, verso l’Ovest.
Il destino
Quello che è stato definito come il western più semplice ed essenziale di John Ford, il lavoro in cui in maniera più nitida si mostrano la sua concezione dello spirito degli uomini che vanno alla conquista dell’Ovest e del loro destino, è Master Wagon (La carovana dei mormoni) del 1950, lavoro che è certamente debitore di The big trail (Il grande sentiero) il film del 1930 di Raoul Walsh che definì nel modo più plastico il mito del West. Nel
film di Ford vi sono due giovani cow-boys, Travis Blue e Sandy Owens, che accettano di guidare una carovana di mormoni verso l’Ovest. Nel grande viaggio i due troveranno l’amore e l’equilibrio della maturità che verrà loro dato dal superamento di mille difficoltà – gli indiani, i fuorilegge, una natura difficile ed ostile – e dalla consapevolezza di essere attori di un grande processo di conquista e di civilizzazione di una terra ancora sostanzialmente sconosciuta. Una meritata prosperità che sarà data dalla terra colonizzata e dal lavoro che la renderà fertile, una donna graziosa ed amorevole che darà dei figli e con loro, un avvenire al proprio destino, sono il futuro di Travis e Sandy.
Ben altra prospettiva è quella che disegna Mc Carthy in Cavalli selvaggi (All the pretty horses) e in Oltre il confine (The crossing) . Nel primo troviamo ancora due giovani, John Grady Cole e Rawlins che si inoltrano in un viaggio iniziatico non più verso Ovest, ma verso Sud, il confine del Rio Grande ed il Messico. Nel secondo, altri due giovani, Bill Parham, insieme al fratello Boyd, si avventurano anche loro verso il Messico coniugando il loro viaggio iniziatico con il desiderio di riportare una giovane lupa sulle montagne messicane da cui proviene. In ambedue i romanzi, ambientati negli anni quaranta, siamo in presenza di una ripetizione. John Grady lascia la casa costruita dal nonno nel 1872, quando lui, il primogenito, era stato l’unico di otto fratelli a traguardare i venticinque anni di età. Gli altri sette erano tutti morti in maniera violenta, chi annegato, chi morto in un incendio, chi ucciso, come si conviene ad un’epoca in cui la durezza della natura si coniuga con una legge precaria o inesistente. Il nonno si era sposato e contemplava i suoi possedimenti interrogandosi sulle vie del Signore e sulle leggi della primogenitura . La moglie del nonno era morta senza aver avuto figli ed allora, l’anno dopo, il nonno ne aveva sposato la sorella dalla quale aveva avuto un’unica figlia, la mamma di John Grady. Così il cognome Grady era finito sotto terra col vecchio . Se nella cultura europea del novecento la Dammerung è una decadenza che si specchia in una consapevolezza tragica della fine, come nei Buddenbrok di Thomas Mann o nella trilogia dei Sonnambuli di Broch o, in modo solo parzialmente diverso, nell’affannosa interrogazione psicoanalitica nei personaggi di Italo Svevo, negli Stati Uniti il tramonto si annuncia con una ripetizione che, come tutte le ripetizioni – insegnano Marx e Freud – sono sempre parziali e si traducono, in realtà, in scenari complessivamente nuovi. John Grady e Billy Parham vanno intanto non verso nuove terre all’Ovest, ma verso quel Messico per la cui rivoluzione la cultura radicale americana aveva sempre avuto un atteggiamento di simpatia ideologica accompagnata però da una certezza della propria superiorità fortemente venata di razzismo. Non troveranno però, in Messico, i giovani americani di Mc Carthy, quel misto di passioni violente e un poco irrazionali che vi avevano visto Robert Aldrich (Vera Cruz, 1954) ed Henry Hathaway in un film, sempre del 1954, distribuito in Italia col titolo Il prigioniero della miniera, ma che aveva in origine un titolo assai più significativo: Garden of Evil. E’ appunto un giardino del diavolo che i personaggi di Mc Carthy si troveranno di fronte: certo troveranno nel Messico ancora donne belle e appassionate, come Alexandra, ed anche la generosità e l’amicizia, ma è la violenza, la desertificazione dei sentimenti nei ricchi e la disperazione che non li consente più nei poveri e nei marginali. Il Messico reale è quello feroce, sanguinario e dispotico che ci ha dato Peckimpah, è uno Wild Bunch che mostra l’altra faccia della rivoluzione romantica e pasticciona che tanto era piaciuta alla cultura hemingweiana. Contrariamente agli eroi fordiani che si stabiliranno nelle terre dell’Ovest, i ragazzi di Mc Carthy torneranno negli USA. La realtà che hanno conosciuto nel viaggio non è quella del sogno americano, ma dell’incubo che ne costituisce il rovescio: morti o delusi torneranno a casa anche i giovani marines descritti da Kubrick in Full Metal Jacket. Non vi sono più terre da scoprire, paesaggi grandiosi in cui inserirsi, spirito democratico da sostenere: la morte, la violenza, l’ingiustizia e la ferocia popolano il giardino del diavolo, non altro.
Ciò che è rimasto del mito della frontiera e che ha costituito una tramatura forte del sogno americano è destinato ad una vita marginale e disperata o direttamente alla morte. Mc Carthy non si differenzia qui in modo significativo dalla tradizione della cultura americana dell’eroe solitario e perdente, collocato in un tempo che ormai non lo prevede più. Quello che però appariva, negli anni cinquanta e sessanta, un presagio dettato dal pessimismo dell’intelligenza – si ricordi il ruolo avuto da Leo Huberman e da Paul Sweezy nella prefigurazione di ciò che di catastrofico avrebbe prodotto il disegno di controrivoluzione globale delle classi dirigenti americane negli anni sessanta – in Mc Carthy diviene testimonianza diretta e annichilimento. Quel quadro inquietante che la Monthly Review ci aveva mostrato come possibile, ci presenta in Mc Carthy una definizione assai più brutale in quanto, se tra gli anni sessanta ed i settanta, la protesta giovanile contro la guerra nel Vietnam, la rivolta di Berkeley e dei ghetti neri di Chicago potevano alimentare speranze di cambiamento, gli USA di Reagan e dei Bush, non le consentono più.
Nei romanzi di Mc Carthy vi è chi paradossalmente finisce per identificarsi con la svalutazione sociale ed ideologica dalla quale è colpito. Buddy Suttree, protagonista del romanzo omonimo , vive ai margini di un fiume, su una chiatta, cibandosi di quel che trova, di scarti e di qualche pesce gatto: il fiume non è certo un luogo sereno ed acquietante, ma è ammorbato da ogni genere di rifiuti e di immondizia. I neri che vivono come lui in questa situazione sono i relitti, gli scarti, umani del processo di produzione e di arricchimento. Un relitto è anche Lester Ballard, il solitario che vive di caccia e che finisce per diventare un assassino ed uno stupratore . Un sopravvissuto fuori tempo, consapevole malinconicamente del proprio stato
è pure Junior Bonner, protagonista dell’omonimo film di Sam Packinpah del 1972 (L’ultimo buscadero): un rodeo cowboy ferito nel corpo dalle mille cadute, ma soprattutto nell’anima dal fratello affarista senza scrupoli. Il padre di Junior è un anziano ancor pieno di fascino, assai meno consapevole del figlio, ancora amato segretamente dalla moglie che ne coglie il suo essere totalmente indifeso. I bulldozer della ditta del figlio raderanno al suolo la sua capanna solitaria mentre lui sogna ancora di raggiungere l’Australia e riprendere la vita avventurosa che costituisce la sua natura. Un relitto è anche il vecchio cowboy di Bite the bullitt (Stringi i denti e vai!) del 1975 che non reggerà i ritmi infernali della corsa di settecento miglia a cavallo fatta – la vicenda è ambientata nel 1908 – per vincere il premio di duemila dollari messi in palio da scommettitori di professione. Mentre sta per morire, il vecchio cowboy rievoca con nostalgia i mille lavori fatti nella sua vita avventurosa; voleva vincere la corsa perché chi vince diviene famoso, ne parlano i giornali mentre dei secondi non si ricorda più nessuno. Per la cultura americana, anche la più genuinamente democratica, la capacità di vedere nello stravolgimento del mito la diretta conseguenza di una pratica economica e non un suo pervertimento operato da una genia di malfattori comunque separati dal corpo sociale nel suo complesso, è sempre stata uno scoglio quasi insormontabile. E’ l’analisi marxista a consentire alla Monthly Review di individuare il nesso di consequenzialità tra la distruzione del mito dell’uomo che conquista e rende accessibile e democratico un territorio od un bene e le leggi della produzione capitalistica. Mc Carthy appare in questo senso come il limite estremo della cultura democratica americana. John Boorman ne aveva anticipato parecchi temi in Deliverance anch’esso del 1972 (Un tranquillo week-end di paura): i montanari la cui valle sarà cancellata dall’invaso idrico sono, come Lester Ballard, degli animali umani destinati ad essere cancellati dai cingoli della storia; la cultura democratica, impersonata nel film dall’intellettuale dell’est, verrà travolta insieme all’edonismo superficiale dell’amico che verrà sodomizzato dai montanari ed anche al fascismo muscolare e non meno superficiale di chi pensa di sterminare i marginali sopprimendoli fisicamente come fa il terzo amico che verrà storpiato dalla violenza della natura.
Se Lester Ballard e Suttree rappresentano l’identificazione con chi ti aggredisce e ti distrugge, Anton Chigurgh personifica invece la violenza controaggressiva di chi reagisce alla ferocia ed alla persecuzione con ferocia non minore e con non minore determinazione . Chigurgh è l’uomo dell’Ovest che è oramai certo della massificazione destinata a liberarsi di ogni individualità ed a frantumarla nella poltiglia informe che la caratterizza. In un passo del romanzo, Chigurgh, parlando di una monetina che non si distingue da mille altre parla di una separazione dell’atto dalla cosa…come se le parti di un certo momento della storia fossero intercambiabili . Gli omicidi di Chigurgh non sono il lavoro fatto per averne una blood money, ma nemmeno l’operazione compiuta per un godimento perverso. Come ci dice lo psicoanalista Wilfred Bion, l’emozione violenta può essere scaricata nell’azione . Chigurgh è uno psicotico che sente il soffocamento della molteplicità e reagisce con la violenza estrema di chi non vuole soffocare o annegare ed agita violentemente le membra. Non esiste nella cinematografia western un personaggio come Chigurgh; quello che gli è più vicino è il Billy the Kid che ci ha proposto Peckinpah nel 1973 (Pat Garrett and Billy the Kid). Mentre però in Billy vi è una certa consapevolezza della violenza di chi è lanciato verso la modernità degli affari e del tradimento di chi per denaro, come Garrett, è passato dall’altra parte, Anton Chigurgh ha perduto ogni riferimento di realtà. Billy è ancora capace di intravedere che la sua violenza individuale, compiuta con il fucile, è il contrappasso disperato dell’emarginazione e della riduzione in povertà operata da una violenza ben più raffinata e radicale. Chigurgh non sa più la ragione della propria violenza, non ha alcun perché. Personaggi come Billy, o come Tom Horn nell’omonimo film del 1980 di William Wiard, possono ancora, come aveva scritto Walter Benjamin, richiamare l’identificazione di chi sente che l’ingiustizia e la violenza trovano nell’eroe-bandito un vendicatore primordiale; Chigurgh, come ogni autentica personificazione della psicosi non attira alcuna simpatia, come non attirano simpatie Moosbrugger, l’assassino delineato da Robert Musil nell’Uomo senza qualità o il pedofilo omicida di M nel capolavoro di Fritz Lang.
La contrapposizione senza speranza alla civiltà dei mercanti conosce in Mc Carthy una terza variante rispetto all’emarginazione disperata e alla follia omicida: è la morte del cow-boy solitario. Lo sceriffo Bell di Non è un paese per vecchi, che morirà, come Lewellyn Moss, il reduce del Vietnam che si era impossessato quasi casualmente del denaro dei narcotrafficanti, per mano di Chigurgh, è il personaggio più consapevole del tramonto del proprio mondo.
Bell non è diverso dai protagonisti di film e libri della cultura liberale americana. La durezza non è in sé condannabile, è lo scopo di questa che la qualifica. Harry Morgan è il duro contrabbandiere di Hemingway che porta merce di contrabbando e clandestini tra Key West e Cuba per spuntare il suo diritto a vivere in una società che il disastro economico ha riempito di reietti come lui . Non diverso da Harry Morgan è Tom Joad il giovane orgoglioso di Furore di John Steinbeck , da cui John Ford trasse il film omonimo, che si difende con la forza ed anche la violenza dalla violenza dei violenti. Ma Bell, Morgan e Tom Joad, anche se questi ultimi due sono anche il frutto letterario dell’America roosveltiana, sono eroi del tramonto, uomini che vedono il loro mondo venire meno come i due anziani pistoleri che Sam Peckinpah ci mostra in Ride the High Country (Sfida nell’alta sierra), ma soprattutto come il cow-boy anarchico e solitario protagonista di Lonely are the Brave (Solo sotto le stelle) magistralmente descrittoci dalla sceneggiatura di Dalton Trumbo nel 1962: inseguito dallo sceriffo che pur ne comprende le ragioni malinconiche della rivolta, il cow-boy riesce a sottrarsi all’inseguimento arrampicandosi con la sua cavalla per le montagne, ma muore poi – o viene comunque irrimediabilmente ferito – insieme alla sua giovane giumenta, spaventata dal fragore e dalle luci in una notte di pioggia, travolto da un camion che trasporta cessi e guidato da un uomo oberato dai debiti e dalle preoccupazioni.
In un passaggio di Non è un paese per vecchi Bell ci parla di qualche cosa simile ad una confusione che a lui pare di avvertire e che pure gli sembra passare inosservata nella società americana di fin e millennio :
Qualche tempo fa ho letto sul giornale che certi insegnanti avevano ritrovato un sondaggio inviato negli anni trenta a un certo numero di scuole di tutto il paese. Era stato fatto un questionario sui problemi dell’insegnamento nelle scuole. E loro hanno ritrovato i moduli compilati e spediti da ogni parte del paese, con la risposta alle domande. E i problemi più gravi che venivano fuori erano tipo che gli alunni parlavano in classe e correvano nei corridoi. O masticavano la gomma. O copiavano i compiti. Roba così. E allora avevano preso uno di quei moduli rimasto in bianco, ne avevano stampate un po’ di copie e le avevano mandate alle stesse scuole. Dopo quarant’anni. Be’, ecco le risposte. Stupri, incendi, assassini. Droga. Suicidi. E io ci penso a queste cose. Perché il più delle volte, quando dico che il mondo sta andando alla malora, e di corsa, la gente mi fa un mezzo sorriso e mi dice che sono io che sto invecchiando. E che quello è uno dei sintomi. Ma per come la vedo io uno che non sa capire la differenza fra stuprare e ammazzare la gente e masticare la gomma in classe è messo molto peggio di me. E quarant’anni non sono mica così tanti. Magari fra altri quaranta la gente avrà aperto gli occhi. Sempre che non sia troppo tardi.
La rivolta contro il mondo che avanza non è possibile, per l’uomo dell’Ovest, che all’interno dei valori nei quali è cresciuta la sua cultura, ma è anche, infine, parte della sua cultura la morte di chi sopravvive al proprio tempo. Non si lamenta il vecchio cow-boy di Bite the Bullitt, come non si lamenta il vecchio Ather il cui destino è la solitudine e l’inselvatichimento più duro . Il solitario Shane, protagonista del film omonimo del 1953 di George Stevens, teorizza la necessità dell’emarginazione per chi, come lui, ha ripristinato la giustizia con le armi; lascerà la valle per andare forse a morire lontano a causa della ferita riportata nel duello al saloon con gli allevatori prepotenti ed il loro killer professionista. La legge scritta ha preso il posto della violenza – un tema questo che ritroveremo in Freud – e chi usa ancora le armi per imporre la legge è fuori dalla modernità.
Il destino dell’uomo dell’Ovest è certamente tragico nei suoi esiti, ma è anche contrassegnato dalla solitudine e dalla lontananza in tutta la sua traiettoria. Come ben riassume Franco Ferrini nella sua monografia su John Ford :
Nel mondo di John Ford la donna, più che la compagna dell’uomo è generalmente la madre…l’eroe fordiano sembra dunque pagare con la lontananza della donna la supervirilità dei propri attributi e delle proprie funzioni: il codice cavalleresco di comportamento e l’assunzione ascetica di un destino imperniato sul dovere.
Mc Carthy non si allontana dalla sostanziale misoginia della tradizionale cultura dell’Ovest americano, ma ne mostra in maniera più nitida i risvolti estremi e disperati mettendo a nudo la radice di una diversità del femminile contro la quale anche Freud si era in parte arenato. Nella corsa avventurosa verso la conquista, o verso il tramonto, la donna è necessaria per la sopravvivenza della specie, ma rischia di essere un fardello per i civilizzatori. Di nuovo troviamo un’analogia tra la cultura dell’Ovest americano e il pensiero di Freud: per quest’ultimo difatti la donna è oggettivamente nemica della Kultur in quanto la sua attenzione alla famiglia ed ai figli tenderebbero a sottrarre l’uomo ai compiti che la società e la Kultur gli assegnano . La donna deve essere protetta dai nemici e dalla natura tanto più ostile quanto più è fisicamente debole chi vi si avventura. La giovane donna di Lewellin Moss è una preoccupazione per quest’ultimo giacché su di lei potrebbe scatenarsi la violenza di Chigurgh; rappresenta quindi un lato più facilmente aggredibile del proprio uomo: allo stesso modo diviene più esposto John Grady quando si innamora di Alejandra.
L’uomo dell’Ovest è un loner, un solitario, perché non può essere che così. La vicenda pubblica è assolutamente prevalente rispetto a quella privata e il proprio compito non è assolvibile se non al prezzo della lontananza dalla donna e della solitudine. Così è per l’Ethan di John Ford in The searchers, che ha lasciato che fosse il fratello, coltivatore e stanziale, a sposare la donna innamorata di lui. Identico destino hanno Tom Doniphone in The man who shot Liberty Valance, Shane che ignora volutamente l’amore che pare nutrire per lui la moglie di Joe Starrett, anch’egli un coltivatore stanziale come il fratello di Ethan, e il Wyatt Earp di John Ford in My Darling Clementine (Sfida infernale, 1946) che si allontana non sapendo se tornerà dopo aver chiesto a Clementine se lo avrebbe aspettato e se la ragazza stessa lo attenderà. La donna è, sostanzialmente, l’essere meraviglioso che da e custodisce la vita. Non casualmente nello straordinario La strada (The road), quando, alla fine del romanzo, rimasto solo il bambino dopo la morte del padre, è una donna, madre di altri bambini, ad abbracciarlo ed a dirgli che è bene continuare a parlare con il padre anche se morto, perché il respiro di Dio è sempre il respiro di Dio, anche se passa da un uomo all’altro in eterno .
Nel mito dell’Ovest, come nei romanzi di Mc Carthy, non manca la figura femminile opposta a quella della donna-madre ed è quella della donna-prostituta o comunque della donna destinata ad accendere il desiderio maschile. Si tratta di donne che hanno rinunciato od hanno dovuto rinunciare al ruolo materno che la cultura dominante ha assegnato loro per assumere quello della prostituta dal cuore buono, che capisce gli uomini anche nelle loro detestabili debolezze. Così, in Ford, è la Chihuahua di My darling Clementine, ma soprattutto la Dallas di The Stagecoach (Ombre rosse). Anche in Mc Carthy troviamo ex prostitute come la Joyce di Suttree, ma anche donne che accendono di desiderio uomini inselvatichiti e normalmente privi di donne come Lester Ballard ed infine donne che, come la Dallas di Ford, sono prostitute, ma che, anche a causa della loro conoscenza degli uomini, sono forti e generose ed alla fine fanno innamorare: così è la Magdalena della quale si innamora John Grady in Città della pianura (Cities of the Plane) .
Se nella tradizione western la donna oscilla tra la madre e la prostituta, come nei peggiori stereotipi maschili, Mc Carthy finisce per disarticolare ogni tipizzazione e per rendere assai più inquietante il rapporto con le donne. E’ proprio la doppia assunzione delle donne come angelicate o come donne di piacere a rendere meno comprensibile, attraverso una pacificazione un po’ anche grottesca, l’irriducibilità del femminile all’universo maschile, la differenza che istituisce le donne come tali. Al fondo del loner vi è un uomo violento con le donne: Lester Ballard diverrà uno stupratore ed un necrofilo e Culla, fratello di Rinthy, mette incinta la propria sorella e abbandona il neonato sulla riva del fiume per liberarsi di un fardello che ostacolerebbe il suo desiderio di avere a disposizione solo sua la sorella-amante . Anche Suttree aveva del resto abbandonato la moglie ed il figlio suscitando disprezzo e rancore. La donna, quando è fondamentalmente buona, diviene nuovamente una madre sempre pronta a capire e a giustificare gli uomini – si prendono ciò che vogliono, sono poco puliti, fanno rumori a letto, ma li amo – dice un personaggio di Hombre di Martin Ritt (1967); la donna quindi, per essere compresa come essere diverso, deve paradossalmente omologarsi alla cultura maschile per esserne decifrata. Rare sono le figure femminili che si definiscono autonomamente rispetto agli uomini nella cultura western: memorabile è certamente la Vienna disegnata da Nicholas Ray nel lontano 1954 in Jhonny Guitar, forse il personaggio femminile più complesso di tutta la cinematografia western. In ben altro clima culturale vi sono poi le donne proposteci nel western rivisitato dalla cultura del sessantotto, come la ragazza rapita dagli indiani e poi “liberata” dai militari in Soldier Blu (Soldato Blu) del 1970 di Ralph Nelson o dal personaggio sessualmente represso della moglie del reverendo in The Little Big Man (Piccolo grande uomo) di Arthur Penn, anch’esso del 1970. Non esistono in Mc Carthy donne protagoniste come lo era stata la Vienna di Ray, quasi a marcare una distanza fondamentale che non è però data dal codice cavalleresco cui le donne sono sostanzialmente estranee oppure sottomesse. La cultura del loner, pare suggerire, Mc Carthy, è assai più vicina ai rozzi criminali stupratori che appaiono in Soldier Blu come in Meridiano di sangue che all’etica semplice dei personaggi di Ford.
E’ la misoginia forzata ed ingenua del loner a far si che l’amicizia virile sia un architrave del mito del West; la donna può insinuarsi tra due amici, ma questo frapporsi non farà venire meno l’amicizia maschile. Uno dei due vincerà la contesa con l’altro ed avrà la ragazza, ma si tratta di una contesa assolutamente sportiva ove il perdente rende omaggio al vincitore e questi trova in ciò un motivo che rende ancor più salda l’amicizia. Così è in un film di Ford dall’indicativo titolo She wore a yellow ribbon (I cavalieri del nord-ovest) ove i due giovani ufficiali sono in lotta tra di loro per conquistare la ragazza interpretata dall’attrice Joanne Dru, ma è così anche per John Grady e Rawlins con Alejandra. Non è mancato chi ha voluto vedere nel tema dell’amicizia virile una latente omosessualità; un notevole clamore aveva suscitato, nel 2005, l’uscita del film di Ang Lee Brokeback Mountain. Il tema del film era realmente interessante non perché apriva ad un tema scottante e sottaciuto del mito del West, ma piuttosto perché metteva in luce una causa dell’omosessualità maschile di oggi che è piuttosto distante dall’interpretazione freudiana classica di un non superamento della questione edipica causato dall’eccessivo timore della castrazione . I due protagonisti del film sono messi continuamente in difficoltà da mogli che non riescono a fronteggiare e dalle quali sono spesso svalutati. Non è oggi infrequente trovare nella clinica psicoanalitica dei casi di omosessualità maschile dove la resa del soggetto non è al padre, o al fratello maggiore, invincibile, ma ad una difficoltà importante nel rapportarsi a donne che non sono più, come nella grande narrazione dell’Ovest americano, le miti donne indiane oppure le fidanzate trepidanti per un futuro in cui confidare o, ancora, le prostitute che sono tali perché sconfitte, come donne, da una cultura e da una società troppo maschiliste e crudeli. L’omosessualità sembra l’esito narcisistico della solidarietà virile nel momento in cui il femminile non è più leggibile secondo la sintassi consueta, ma nel mito del West, allo stesso modo che in Mc Carthy, l’amicizia tra gli uomini è piuttosto l’architrave su cui si può reggere l’edificio della conquista e della cultura sociale . L’Ovest americano è assai più simile alla civiltà di cui parla Freud che agli ordinamenti militari dove l’omosessualità, coltivata oculatamente attraverso l’isolamento dei guerrieri dalle donne, era un collante dello spirito bellicoso, come avveniva a Tebe o nei reggimenti dei giannizzeri in Turchia.
La violenza
Non sarebbe certamente errato affermare che il tema della violenza percorre tutta l’opera di Mc Carthy. Essa permea le situazioni ed i personaggi in modo tale da costituirne una natura inaggirabile. I protagonisti dei suoi romanzi possono anche essere persone che non sarebbero di per sé violente e tantomeno criminali. Anton Chigurgh rappresenta una personificazione della violenza nella sua accezione più nitida e disperata, ma anche un oggetto mentale entro il quale è stata proiettata la costituzione più intima della violenza autoreferenziale, senza perché, che costituisce un elemento importante e drammatico delle società occidentali di oggigiorno. Non sarebbero personaggi violenti John Grady, Bill Parham e Buddy Suttree, come non lo sono Ab Jones, il nero amico e compagno di Suttree che si ribella alla violenza dei poliziotti del Tennessee e, ancor meno, lo è il Nero, protagonista unico assieme al Bianco, di Sunset Limited che, assieme alla donna che accoglie il bambino rimasto orfano ne La strada, è l’unico personaggio di Mc Carthy che riesce ad intravedere un futuro, sia pure proiettato in forme di convivenza fuoruscite da una civiltà che è andata definitivamente in fumo nelle ciminiere di Dachau . Ab Jones e il Nero debbono impiegare la violenza per proteggersi dalla violenza degli altri, i bianchi e soprattutto i bianchi vincenti, che li vogliono eliminare per odio sociale e razziale.
La violenza è, in Mc Carthy, qualcosa di consustanziale alla società otto/novecentesca che la esprime. Essa può essere cancellata con un’operazione ideologica di rimozione, quella che fa dire al Bianco di Sunset Limited che la società da lui amata e che oggi non esiste più è quella delle arti, delle lettere e della bellezza, ma rimane la base sulla quale si è costituita la società stessa che noi conosciamo e nella quale siamo tutti immersi. La violenza in Mc Carthy ha la medesima dimensione dell’ideologia dominante in Marx: tutti ne siamo partecipi, ma vi è chi gode i frutti del suo esercizio, come i conquistatori, e chi invece ne sopporta solamente i danni come i conquistati, i nativi americani, ed i vinti, la condizione di quasi tutti i personaggi principali di Mc Carthy.
Come in Freud, in Benjamin e in Schmitt, anche in Mc Carthy la violenza non è una degenerazione del potere legittimo, ma non coincide nemmeno necessariamente con il potere stesso o con la sua pratica.
Sulla questione della violenza la distanza di Mc Carthy dal mito western è molto grande. Pur nelle oscillazioni di alcuni film, come Cheyenne Autumn, per John Ford la violenza è un male – talvolta un grande male – di un potere che trova però il suo fondamento nella vitalità e nella salute di un corpo sociale e istituzionale che persegue pur sempre ideali di progresso e di giustizia. Anche Altman (Apache del 1954, L’ultimo apache è il titolo italiano, ma anche Buffalo Bill and the Indians or Sitting Bull Lesson of History del 1976, uscito in Italia come Buffalo Bill e gli indiani) e Peckinpah (in Pat Garrett and Billy the Kid, ma anche in Ride the High Country e in The Wild Bunch) non vanno molto al di la di Ford: la società americana è malata, profondamente malata, ma ha in sé gli anticorpi per salvaguardare la sua sopravvivenza. Forse solamente in Cable Hogue Ballad del 1970 (La ballata di Cable Hogue) Peckinpah si avvicina alla consapevolezza di Mc Carthy come si avvicinerà due anni dopo l’Altman di Ulzana’s Raid (Nessuna pietà per Ulzana). La visione americana della conquista dell’Ovest arriva a vedere, al più, come anche negli western movies di impronta sessantottina già ricordati, che la violenza esprime, nella società, la sua anima più intima e che le sue vittime non sono solo i nativi come Ulzana o Geronimo, ma anche i bianchi come Billy the Kid o Cable Hogue, residui inutilizzabili di un tempo che in realtà non fu mai e di un’ideologia che invece fu e che li sedusse.
In Mc Carthy la violenza rappresenta il fondamento terribile del diritto. Come aveva scritto Freud ad Einstein :
La violenza viene spezzata dall’unione di molti, la potenza di coloro che si sono uniti rappresenta ora il diritto in opposizione alla violenza del singolo. Vediamo così che il diritto è la forza della comunità. E’ ancora sempre violenza, pronta a volgersi contro chiunque le si opponga, operante con gli stessi mezzi, intenta a perseguire gli stessi fini; la differenza risiede in realtà solo nel fatto che non è più la violenza di un singolo a trionfare, bensì quella di una comunità.
Il singolo che esercita la violenza va contro le regole della comunità e deve venire contrastato da questa non tanto, come aveva detto Benjamin, per ragioni etiche, quanto perché la tolleranza indurrebbe un rafforzamento di questa violenza stessa ed un pregiudizio per la comunità . Ma non solo la violenza attiene la società fin dai suoi momenti fondativi: essa appare anche come la risposta più immediata del singolo rispetto a ciò che lo circonda e che gli appare irrimediabilmente ostile. Sempre nel carteggio con Einstein, Freud dice che difficilmente le azioni umane siano opera di un singolo moto pulsionale; quando gli uomini muovono alla guerra, vi sono alla base una serie intera di motivi: tra questi vi è certamente l’aggressività ed il piacere di distruggere. Il fatto che la distruttività sia mescolata con altri impulsi di natura invece nobile ed altruistica, ne favorisce il soddisfacimento .
E’ il Giudice il personaggio che ha il compito di dirci qual è il concetto di violenza in Mc Carthy. La guerra –egli dice – perdura nel tempo e non ha senso chiedere che ne pensano gli uomini perché gli uomini non possono sapere bene che cosa c’è nella loro mente giacché hanno solo, appunto, la loro mente per pensare . La guerra, e la violenza attraverso la quale si esprime, non è solo la fonte di ogni convivenza, ma precede l’uomo e lo prescinde. Egli nasce dentro alla violenza e da questa non può in alcun modo prescindere. Mc Carthy sembra qui inconsapevolmente sostenere le più radicali posizioni di Melanie Klein e della sua scuola sulla distruttività e l’invidia come origine dell’uomo e della sua vicenda; più radicalmente di Freud che, nell’ultima parte del carteggio con Einstein aveva sostenuto l’incompatibilità della civiltà con la guerra, egli pone un interrogativo che Wilfred Bion ed i più recenti studi kleiniani hanno messo in rilievo: la mente umana non può pensare le condizioni del pensare che all’interno del pensiero stesso. Per pensarle dall’esterno del pensiero si dovrebbero avere degli strumenti espressivi a disposizione che lo travalichino, ma all’interno di questi non sarebbe più possibile pensare . La violenza e la distruttività sono consustanziali, è la tesi fondamentale di Mc Carthy, all’uomo, ne costituiscono ossa e carne. Solamente sul piano astratto possono essere separate, sostiene il Giudice, dalla generosità e dall’altruismo, ma si tratta pur sempre di momenti brevi e provvisori, come aveva pensato anche Freud all’alba della prima guerra mondiale, oppure di falsificazioni della verità. Forse, al di fuori del pensiero psicoanalitico più radicale, solo Giacomo Leopardi ci aveva mostrato una tale radicalità osservando che nessun altro animale fuori dell’uomo, si occide volontariamente come medesimo .
La guerra, dice il Giudice, è la forma più attendibile di divinazione perché solamente giocando la propria vita liberamente contro un altro – la guerra è qui intesa come un duello – per nulla ottenere se non la supremazia, si intende veramente che il fato, inteso come casualità immotivata, non esiste. Non si tratta più della lotta hegeliana per la vita e per la morte, ma è la supremazia, il vincere la propria vita togliendola ad un altro che da conto pieno della libertà radicale e fondante. Più Nietzsche che Hegel, il Giudice riscontra che la legge morale è un’invenzione dell’umanità per deprivare il forte a vantaggio del debole . L’uomo non può in realtà scrollarsi di dosso la responsabilità della propria violenza giacché è proprio dal confronto violento con gli altri che può avere contezza di sé e del proprio valore :
I giochi sportivi coinvolgono l’abilità e la forza dei contendenti, e l’umiliazione della sconfitta e l’orgoglio della vittoria sono di per sé una posta sufficiente perché pertengono al valore degli antagonisti e li definiscono.
Cormac Mc Carthy è ben consapevole della colpa ineliminabile della violenza. Nessuno dei suoi personaggi ne è immune perché tutti i giochi aspirano alla condizione di guerra, perché in essa la posta inghiotte gioco, giocatore, tutto quanto .
Il contrappunto con il mito dell’Ovest sul tema della colpa ci da, come in un lampo di luce accecante, le verità rovesciate di Mc Carthy e di John Ford. In The man who shot Liberty Valance è Tom Doniphon, il vecchio cow boy che si avvia al tramonto per lasciare il futuro, l’onore e la donna al giovane avvocato democratico Stoddard, ad uccidere Liberty Valance. Lo uccide nascondendosi tra le case un attimo prima che il fuorilegge uccida in duello Stoddard, uomo tanto coraggioso da sfidare un pistolero a duello, ma del tutto impreparato a farlo. Doniphon lascerà credere a tutti che è stato Stoddard ad uccidere Liberty Valance: la legge e la giustizia trionfano grazie ad un uomo coraggioso, Stoddard, che farà giustamente carriera politica sostenuto ed amato da tutti gli uomini onesti. Tom Doniphon si è preso l’onere di uccidere: è a causa di questo antefatto che la giustizia può trionfare. Il rivelare la verità avrebbe tradito lo spirito di giustizia giacché tutti avrebbero visto su cosa questa si regge. Stoddard eleva se stesso e le sue nobili idee sulle spalle di Doniphon il quale non può che avviarsi, come dice il Giudice, ad essere inghiottito insieme al suo gioco dalla necessità della guerra. Un sogno di un paziente in analisi raffigura con la nitidezza della rappresentazione onirica lo snodo tra Mc Carthy e Ford. Nel sogno un bambino, il paziente, issato sulle spalle di Stalin, gioca a pallacanestro ed è felice della sua bravura nel mettere agevolmente la palla nel cesto. L’osservazione del paziente è che tutto il nostro essere, anche quando si pensa lontano dalla violenza e dall’omicidio e solamente preso dalla bellezza gentile di un gioco tra bimbi felici, si issa sulle spalle di un Sé criminale che è assai difficile accettare come parte costituente della propria personalità.
Il Giudice ha l’imponenza del grande criminale. Lo sterminio degli Apache da parte della sua banda rivela, come in un ghigno disgustoso, ciò che tutti fanno e hanno fatto per conquistare l’Ovest, ma che viene accuratamente rimosso. Il Giudice, come Doniphon, si assume la colpa dell’assassinio ma, al contrario di questi, non pensa affatto che il mondo sia popolato da avvocati Stoddard. Il mondo è popolato da filistei, come avrebbe detto Marx, che fanno fare agli altri il lavoro sporco per goderne poi oscenamente i frutti. Il Giudice è, come Chigurgh, un esecutore. La sua lucidità affilata ci aiuta a capire più di quanto lo faccia la confusione psicotica di Chigurgh e per questo ci appare come uno di quei grandi criminali con i quali talvolta le masse si identificano perché vedono in loro, come aveva osservato Walter Benjamin, chi compie un atto di giustizia paradossale capace di rivelare quale sia la natura del potere e della sua ideologia di giustizia. Al tempo delle guerre indiane negli USA, l’opinione pubblica internazionale vedeva negli Stati Uniti e nell’Italia i due stati che maggiormente operavano con tecniche militari di conquista e occupazione in territori di recente annessione. Per l’Italia il riferimento era alla campagna contro il brigantaggio in Meridione. Ninco Nanco non era meno feroce di Geronimo ed i soldati piemontesi non differivano poi molto dal generale Nelson Miles: Ninco Nanco divenne, come Carmine Crocco e. prima di loro, Michele Pezza, Fra’ Diavolo, una figura mitica capace di ribellarsi, con ferocia, alla prepotenza delle truppe conquistatrici ed al nuovo ordine che esse rappresentavano.
Diversamente dal cinema americano del sessantotto che rivisita il mito del West, Mc Carthy non ci svela, attraverso la figura del Giudice, su quali crimini ed efferatezze sadiche si fondi la mitologia della conquista e della frontiera: il Giudice mostra al più come, al fondo della dissacrazione del mito, permanga lo stupore della scoperta della violenza. Mc Carthy non è Marx e non ha studiato il concetto di accumulazione primitiva, ma non è però nemmeno un liberal che immagina che la conquista poteva essere fatta in altro modo. La ferocia, lo sterminio e l’ingiustizia non solamente sono all’origine dell’annessione dei territori di ponente, ma ne costituiscono la condizione di possibilità stessa. Non è con i trattati e la giustizia che si possono fare contenti coloro che hanno brama di terre nuove e di nuove ricchezze. Il Giudice tocca qui un punto nodale della concezione schmittiana della Politica. Riprendendo difatti Hobbes, Carl Schmitt sottolinea come il nomos non costituisca solamente la legge, ma anche il prendere; il nomos, infine, è il pollo che il contadino che vive sotto un buon re ha in tavola la domenica . La legge ed il diritto possono sopravvenire solo dopo che vi è stata una spartizione. A ciò non si può sottrarre, dice Schmitt, nemmeno il socialismo: prendere, dividere, produrre ed il loro ordine di successione . L’idea liberale di un aumento della ricchezza attraverso un continuo incremento della produzione consente solamente l’illusione di non avere più alcun problema nella distribuzione della ricchezza. Marx, a modo di vedere di Schmitt, si differenzia in modo radicale dal socialismo di Fourier, Sorel e Proudhon proprio in quanto vede nella parabola capitalistica il tentativo di allargare sempre più la massa dei
beni rifiutando di prendere atto che lo sviluppo è limitato per definizione e che un bene è tale proprio perché se ne ha, in generale, una misura limitata; cosa che ben si vede oggi quando si pensa di privatizzare l’acqua e l’aria stessa non è più in grado di autoriprodursi in misura sufficiente a rimediare all’inquinamento atmosferico. Anche quando le conquiste territoriali e le rapine coloniali sono terminate, conclude Schmitt :
Prima di poter distribuire, o redistribuire il prodotto sociale, lo Stato deve appropriarsene, sia attraverso imposte e contributi, sia mediante la distribuzione dei posti di lavoro, sia con la svalutazione o con altri strumenti diretti o indiretti.
Ciò che il Giudice aveva chiamato un’invenzione dell’umanità per danneggiare il forte a vantaggio del debole, si presenta quindi come l’incapacità nevrotica di affrontare la realtà per quella che è e la necessità quindi di trasformarne la percezione per renderla accettabile . Solo nel mondo delle fiabe esistono gli asini caca-zecchini, ma bisogna raggiungere la menzogna più spudorata della pubblicità per vedere vitelli felici di diventare bistecche e patate che sono già, quando vengono colte, a forma di bastoncino.
La natura
Franco Romanò, in un lavoro sullo stile di Mc Carthy, parla di una reciproca indifferenza tra natura e storia . In realtà in Mc Carthy troviamo almeno due diversi tipo di descrizione della natura. Uno è più consueto e riguarda il paesaggio desertico e impressionante delle terre di confine tra il Texas ed il Messico: è il paesaggio a cui vanno incontro John Grady e Bill Parham e che viene riassunto dal Giudice in un passo di Meridiano di sangue che rende isometrico il paesaggio naturale con quello interno
Un uomo cerca il proprio destino e nessun altro, disse il giudice. Volente o nolente. Qualunque uomo avesse la possibilità di scoprire il proprio fato, e pertanto scegliere un percorso opposto, alla fine arriverebbe soltanto alla medesima resa dei conti in quello steso momento stabilito, perché il destino di ogni uomo è grande come il mondo che abita, e contiene in sé tutti gli opposti. Questo deserto sul quale tanti sono stati distrutti è vasto ed esige un grande cuore, ma in fondo è anche vuoto. E’ aspro e arido. La sua vera natura è la pietra.
Il paesaggio naturale è aspro ed arido ed è dentro questa asprezza che deve muoversi il vero danzatore l’uomo che si è interamente offerto al sangue della terra, il guerriero insomma, che è destinato ad essere disonorato e ad essere sostituito da falsi danzatori che faranno una falsa danza . E’ anche il paesaggio nel quale su muove Moss, il cacciatore che incapperà fortuitamente nel regolamento di conti tra trafficanti di droga :
Abbassò il binocolo e rimase seduto a studiare il territorio. A sud in lontananza le montagne brulle del Messico. I canyon del fiume. A ovest il terreno color terra cotta lungo la frontiera. Fece uno sputo secco e si asciugò la bocca sulla spalla della camicia da lavoro di cotone.
La natura, terribile, ma anche teatro unico dello svolgersi dell’attività più autentica dell’uomo – il suo misurarsi con ciò che è ostile – è quella nella quale era perfettamente inserito il vecchio Ather nel Tennessee:
Se fossi più giovane, si disse, andrei a vivere su quei monti. Cercherei un ruscello e mi costruirei una casa di legno col camino. E le mie api farebbero miele nero di montagna. E non me ne importerebbe niente di nessuno…Il vecchio annusava l’odore intenso della terra, ricordandosi di altre primavere, altri anni Si stupiva di come la gente ricordasse gli odori…Non come le cose si vedono. Rammentava ancora l’odore del topo muschiato che non sentiva più da quarant’anni. Si ricordava persino della prima volta che aveva sentito quel tipico aroma dolciastro, un mattino, molto di più di quarant’anni prima, mentre scendeva lungo il Short Creek, con i campi di cotone bianchi e gelidi e la bruma che saliva dal torrente. La primavera era appena cominciata, la stagione della caccia con le trappole volgeva al termine e lui aveva catturato un vecchio maschio, con la coda arancione, grosso come un gatto. Il forte odore di muschio gli aveva richiamato alla mente qualcos’altro, ma non era mai riuscito a capire cosa.
La pietra, come dice il Giudice, costituisce la vera natura di questa prima immagine del paesaggio di Mc Carthy. Essa è dura, non regala nulla e deve essere aspramente lavorata per poterne trarre qualche cosa di prezioso e vitale.
L’altra immagine della natura che Mc Carthy ci da è invece quella del paesaggio suburbano fluviale di Suttree. Si tratta di una natura seconda, certamente disegnata dall’uomo nel suo essere un insieme di una natura prima esistente ed irrimediabilmente compromessa, mescolata a rifiuti di vita umana che si inseriscono perfettamente nel degrado costituendone una parte essenziale :
Sotto, il fiume cominciava ad allargarsi in una laguna costiera. Banchi di melma crivellati di buchi e sfiatatoi come grosse fette di fegato colpito da fascioliasi e una colonna di ceppi d’albero come calamari grigiastri arenati che si essicano al sole. Una sarabanda senza vita battuta dai corvi che se andavano placidamente impettiti e cangianti e lucidi come uccelli di vetro nero da un resto di carogna incagliata all’altro. Suttree disarmò i remi e si lasciò scivolare verso riva e si mise in piedi mentre la prua dello schifo raschiava il fango, sbilanciandosi e ritrovando l’equilibrio, finchè saltò agilmente a terra con la cima in mano, che legò a una radice con un nodo a mezzo collo. Attraversò l’erba alta e si inerpicò su per il pendio aggrappandosi alle zolle di torba e giunto in cima si voltò a guardare il fiume e più lontano la città, percorrendo con uno sguardo cupo quel vario mondo, le parcelle di terra arabile, le case, le bizzarre sfumature della piccola metropoli contro le verdi colline in fiore e il gomito piatto del fiume come una trincea serpeggiante spenta da depositi di scorie tranne dove il vento ne aveva granito la superficie che scintillava leggermente al sole. Camminò lungo la cresta delle ripe attraverso il falasco agitato dal vento disturbando piccoli uccelli che si alzavano a ventaglio e planavano nel vuoto con le ali ferme. Un trattore giocattolo avanzava su un campo in un pennacchio di polvere. La in fondo l’isola era cerchiata di fango. Suttree fece rimbalzare un frammento d’ardesia sulla superficie del fiume. La pietra sbandò, brillò, scomparve. Scese attraverso una fangosa torbiera e proseguì, guadando un intrico di rovi spinosi, prendendo per il fianco di una collina oltre il promontorio dominato dall’antica magione, vestigio di un grande impero che troneggiava nudo, diroccato e putrescente in mezzo alla macchia d’alberi sopra il fiume e rimuginava su questo mondo effimero con le sue tristi finestre spente a colpi di pietra.
La natura che sta sotto gli occhi di Suttree non è più certamente quella che un lettore francofortese di Marx indicava come la mediazione naturale della società a cui forse si può ricondurre la natura del vecchio Ather e di John Grady, ma non è più neppure una mediazione sociale della natura . La natura seconda che ha innanzi l’umanità al tramonto del ventesimo secolo è un’immane raccolta di rifiuti che si presenta uguale a se stessa lungo le rive del Tennessee, nelle periferie di Delhi o di Rio o di Palermo. Non vi sono però solamente rifiuti che vengono gettati negli spazi, ma vere e proprie modificazioni naturali – pesci dei mari caldi nel mediterraneo, gabbiani nei dintorni di Milano, riduzione del cinquanta per cento dei ghiacciai alpini – che rendono improponibile non solo il concetto di mediazione sociale della natura, ma persino quello di mediazione tra due oggetti che si conservano distinti; appare solo una con-fusione.
Il passaggio tra la natura aspra ed arida e lo sfacelo di Suttree, ce lo offre un autore assolutamente distante da Mc Carthy come Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Anche in Tomasi di Lampedusa la natura si propone come qualcosa che non ha vie di mezzo tra la mollezza lasciva e l’arsura dannata di quando nevica fuoco . Il contrasto – come spiega il Principe di Salina agli ufficiali inglesi in visita nel suo palazzo – tra lo splendore del paesaggio, l’irruenza della luce, e lo squallore, la vetustà, il sudiciume delle strade di accesso , è solo apparente giacché una cosa è derivata dall’altra. Lo squallore della natura contemplata in Suttree è collegato alla natura arida, ma anche in qualche modo praticabile come insegna Ather, il cacciatore. Il tramite, ancora una volta, sarà Freud e, forse ancora di più, Melanie Klein.
Anche John Ford ci ha dato l’immagine di una natura, quella del Monument Valley, tra l’Arizona e lo Utah, arida ed aspra. Il regista americano ha ambientato molti film in questa valle che evidentemente costituiva per lui quello spazio vasto entro il quale si poteva declinare l’avventura umana dei suoi personaggi, avventura per la quale occorre un grande cuore. Non c’è però nel cinema western un paesaggio naturale degradato come appare in Mc Carthy: vi è invece una reazione al tramonto del mito della frontiera che ripropone una natura che appare come qualcosa che si è conservato identico a sé stesso pur nella sua alterità ostile. La si trova in Jeremiah Johnson (Corvo rosso non avrai il mio scalpo) di Sydney Pollack del 1972, ma soprattutto in Dances with Wolves (Balla coi lupi) del 1980 di Kevin Costner, come anche, sempre di Costner, nel più recente Open Range (Terra di confine).
Freud ha, complessivamente, un’idea della natura non troppo dissimile da quella di Mc Carthy e di Ford. La natura dura ed ostile, ci dice nel Disagio della civiltà, costituisce uno dei motivi di infelicità della vita. Proprio questa durezza ostile è, suggerisce, ne L’avvenire di un’illusione , all’origine della religione che si presenta come un modo primitivo di spiegare e giustificare catastrofi naturali potenzialmente sempre incombenti. Ben lontano da un pensiero ecologico formulato nei termini di difesa della natura dall’aggressione umana, Freud individua comunque, in uno scritto breve ma assai famoso del 1915, Caducità , una forza positiva della natura che si oppone alla distruttività umana.
Il passaggio da una natura intesa, come aveva detto Hegel, costituire l’idea nella forma dell’essere altro , ad una alterità con la quale una relazione è possibile, appare problematico. La forma dell’alterità nella quale si mostra la natura di Mc Carthy non esclude la possibilità dell’azione umana dentro ad essa e non solamente in opposizione.
Il poter trarre dalla natura qualche cosa di buono prevede un lavoro che consenta di avere alimenti, minerali preziosi, materiali con i quali produrre energia e così via come ci avevano mostrato, nella narrazione della conquista dell’Ovest, le figure dei cacciatori come Jeremiah Johnson e quelle dei contadini come il Joe Starrett di Shane. L’astuzia del cacciatore ed il lavoro del contadino rendono possibile avere qualche cosa di prezioso dalla terra e dalla natura. Si tratta, sul piano immaginario, di prendere qualcosa a qualcuno che lo custodisce gelosamente. L’antropologo Lorenzo D’Angelo, autore di una recente ricerca sui minatori di diamanti in Sierra Leone, ci dice che per questi minatori i diamanti appartengono ad un debul, un diavolo . I sacrifici rituali delle popolazioni primitive erano tesi ad espiare la colpa della violenza implicita nell’atto di prendere qualche cosa alla terra ed alla natura. Nel mito di Prometeo, Freud rileva come gli dei puniscano in modo feroce colui che ha osato rubare loro il fuoco per donarlo agli uomini. Ancora oggigiorno ritualmente i cacciatori mitteleuropei mettono in bocca alla preda abbattuta un rametto di larice offrendo quindi all’animale prelevato un pasto simbolico che ne annulla fantasticamente la morte. Freud ha assai chiaro che il dominio della natura è frutto dell’aggressività :
..è inconfondibile l’influenza che il progressivo dominio delle forze naturali esercita sui rapporti sociali degli uomini dal momento che questi pongono sempre gli strumenti di potere che via via acquisiscono al servizio della loro aggressività, usandoli gli uni conto gli altri. L’introduzione del metallo, del bronzo e del ferro ha segnato la fine di intere civiltà e delle loro istituzioni sociali.
Ma la distruttività, persino nella sua forma più estrema, quella della guerra, è la riflessione di Freud in Caducità, sarà superata e nuove cose belle verranno create ed ammirate perché la forza della vita non si lascia mai interamente annichilire dalla distruttività: quanto alla bellezza della natura, essa ritorna, dopo la distruzione dell’inverno .
La natura violenta e magnifica, ostile e grandiosa che ci mostra Mc Carthy può venire meglio compresa, nelle sue polarità estreme, attraverso il concetto kleiniano di invidia . La bellezza della natura selvaggia appare essa stessa come un meccanismo di proiezione all’esterno dell’immagine di qualche cosa che è intangibile e chiuso in se stesso. Il trarne cose preziose si presenta allora necessariamente come empietà. E’ una empietà che può essere giustificata dalla necessità di sopravvivere e persino dal desiderio di avere per sé, onorandolo convenientemente, qualche cosa di buono e di prezioso, ma questo non fa venire meno che la bellezza e la sua ricchezza possano difficilmente venire conciliate con il desiderio di possederle. Aggredire e rovinare la bellezza e la ricchezza è il modo, insieme, per manifestare un sentimento distruttivo come l’invidia tentando nel contempo, in un lavoro di Sisifo, di annullarne le premesse. Non si invidia ciò che è brutto e privo di vita.
Un ragazzino in trattamento a causa di una modesta insufficienza, un altro child of God, era estasiato mentre mi raccontava delle possibilità di trarre un buon alimento nelle situazioni più aride. I cammellieri del deserto, aveva letto, seppellivano l’acqua per garantirsi la vita. L’acqua, aggiungeva, quando sgorga dalle cascate, precipitando, si libera dai metalli pesanti che ha raccolto nel tragitto precedente e diventa così più viva. I tedeschi addirittura, nella seconda guerra mondiale, erano riusciti a trarre benzina dal carbone.
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