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Il denaro e il “sociolismo”

letteredi Giorgio Oldrini

(Testo dell’intervento letto alla presentazione del libro a cura di A. Voltolin, “L’ideologia del denaro”, Bruno Mondadori, 2011 presso: Università degli Studi di Milano – Polo di Mediazione Interculturale e Comunicazione, 8 aprile 2011)

Vorrei cominciare con una piccola confessione qui impegnativa: ho fatto a lungo il cronista, dunque sono sempre stato scarso sulle analisi, ma mi hanno molto interessato i racconti. Così ho deciso di raccontarvi la mia esperienza: sono uno dei pochissimi italiani che ha vissuto molti anni in un Paese, e in una epoca di quel Paese, in cui i soldi non contavano nulla.
Ho vissuto a Cuba tra il ‘75 e l’ 84, quando ancora forti erano le influenze di Che Guevara. Il Guerrillero aveva teorizzato che l’uomo rivoluzionario, l’uomo nuovo doveva agire mosso solo da stimoli morali disdegnando quelli materiali. A questo impianto ideologico si univa la scarsezza assoluta di beni, anche essenziali, e il risultato era l’accumulo di denaro in ciascuna famiglia che restava sdegnosamente inutilizzato.
Un amico, Juan Blasco, che ai nostri tempi era l’organizzatore di tutte le grandi manifestazioni cui partecipava Fidel, ci raccontava che quando vinse la Rivoluzione, venne chiamato da Castro che ordinò a lui, giovanissimo studente universitario, di diventare commissario interventore in un gruppo di banche in vista della loro unificazione e nazionalizzazione. Alla fine Fidel gli comunicò che gli toccava uno stipendio molto alto. Blasco scoppiò a piangere: “perché mi disprezzi al punto da offrirmi una retribuzione così alta. Perché mi offendi? Pensi che io non sia un rivoluzionario? “ gridò al Comandante.
Quando arrivai nell’isola, se un cubano depositava i soldi in banca non aveva diritto a nessun interesse. Qualche anno dopo, in seguito ad un dibattito ideologico serrato che voleva superare almeno in parte il guevarismo e le remore di quello che un nostro attuale governante definirebbe un pericoloso catto comunismo, si stabilì che gli interessi andavano concessi a chi depositava in banca. Ma con una divertente inversione della

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logica, più alto era il conto, più bassi gli interessi.
C’era poi una banca per stranieri dove si potevano depositare e ritirare, naturalmente sempre senza interessi, i detestati dollari. Vi avevano accesso diplomatici e giornalisti accreditati. Un giorno arrivò all’Avana la prima italiana fruitrice di una borsa di studio, la professoressa napoletana Alessandra Riccio. Aveva con sé i dollari per pagarsi la permanenza e la accompagnai nella banca per stranieri dove voleva aprire un conto. Il cassiere le chiese: “Lei è diplomatica?””No” rispose Alessandra. “lei è giornalista?” “No, sono una professoressa universitaria italiana titolare di una borsa di studio del governo cubano” “Mi spiace, ma allora non può depositare i suoi dollari”. Alessandra rimase senza parole, poi mi disse “In banca a Napoli prima ti prendono i soldi, poi ti chiedono perché vuoi depositarli”.
Nel settembre del 1975, Fidel Castro in un comizio sulla plaza de la Revolucion disse che il prezzo dello zucchero sui mercati internazionali era crollato, dunque occorreva risparmiare. Qualche sera dopo incontrai il ministro dell’educazione, che a Cuba è così importante da essere sempre vice primo ministro. “Allora il suo ministero adesso dovrà tagliare il bilancio” gli chiesi con la logica da ex consigliere comunale sestese. “Bilancio? – mi guardò stupito José Ramon Fernandez – Ma il mio Ministero non ha un bilancio”.
Questo modo di intendere il rapporto col denaro, o, come si diceva allora, con gli stimoli materiali, produceva effetti contradditori. Esaltava un nucleo di eroi volontari, pronti a prendere le armi per la Rivoluzione e totalmente disinteressati, e faceva crescere una quantità di lavoratori che non lavoravano. Se era indifferente infatti impegnarsi per più ore al giorno rispetto alla retribuzione o all’acquisizione di beni, perché dannarsi l’anima? Il problema ulteriore era che spesso convivevano nella stessa persona l’eroico volontario che si era battuto armi in pugno in Angola e il lavativo che arrivava in ritardo al lavoro e perdeva tempo con mille scuse. Era come se l’uomo nuovo di Che Guevara convivesse con il pelandrone irresponsabile.
Spesso poi quello stesso o quella stessa operaia o impiegata che lavorava poco e male, era pronto a passare domeniche sotto un sole accecante a fare lavoro volontario tagliando canna da zucchero o raccogliendo caffè. Dunque la contraddizione non era nemmeno confinata in tempi successivi, ma mescolava il venerdì con il sabato o la domenica con il lunedì.
Mia moglie, che è una rigida biologa bergamasca, lavorava nel laboratorio di un ospedale dell’Avana. Un suo compagno di lavoro, Arsenio, era il tipico lavativo. Lei si impegnava per ore, mentre lui se ne andava a corteggiare infermiere, e per di più Tina doveva fare anche il lavoro di quell’altro. Prendevano lo stesso salario e naturalmente mia moglie era indignata. Un giorno disse alla responsabile: “Ma perché non licenziate Arsenio?” “E no, quella è una misura capitalista, il lavoro è un diritto” rispose la capo laboratorio. Anche per chi

non lavora. L’egualitarismo si era trasformato in disuguaglianza, perché ad identico lavoro non corrispondeva più identico salario. Ma la logica era capovolta, meno lavoro uguale salario.
Al denaro si sostituiva il ritorno ad una forma diffusa di baratto. Che aveva la conseguenza di intessere rapporti fitti nella società, basati sull’assistenza mutua e sullo scambio. La tessera di razionamento, la libreta, assicurava una serie di prodotti a bassissimo prezzo. Tutti avevano diritto, ed acquistavano, i prodotti, indipendentemente dal fatto che a ciascuno interessasse per sé proprio quell’oggetto. Toccava un chilo di zucchero a famiglia ogni 15 giorni, ma non tutti lo consumavano. Così se un vicino aveva diritto, e acquistava, le sigarette anche se non fumava, ecco che si scambiavano tre etti di zucchero con un pacchetto di sigarette. E così via. La quantità di scambi e la loro sistematicità avevano creato reti parallele e informali a metà tra la solidarietà e l’interesse.
Ma i segni della differenza si insinuarono poco a poco, anche se minimi. Mi ricordo che un giorno anch’io mi indignai perché il sindaco dell’Avana Fernandez Mell girava per la città con una Lada sovietica, uguale a tante altre, ma con i cerchioni delle ruote in lega. Mi sembrò un insopportabile privilegio.
Moltissimi prodotti erano razionati e tra l’altro toccava ad ognuno un sigaro al mese. Cominciò a girare una barzelletta. Un companero suona alla porta di un appartamento. Un bambino apre e prima che il visitatore possa aprire bocca, il ragazzino grida: “papà c’è un membro del Comitato centrale che ti cerca”. “Ma come hai fatto a capire che sono membro del Comitato centrale del Pc?” Chiede sbalordito il nuovo arrivato. “E’ che hai due sigari nel taschino”.
La domanda fondamentale, ma mai posta in questi termini ovviamente, era: la premessa secondo cui l’uomo è buono, ma le sovrastrutture lo bloccano, dunque è necessario abbattere queste per ritrovare l’uomo vero, corrisponde alla realtà profonda o no? Se la scomparsa del denaro, la costruzione di una società comunista, seppure tropicale e abbozzata, non portano alla nascita dell’uomo nuovo capace di un eroismo e di un volontarismo senza sosta e diffuso, ma anzi limitano lo sviluppo della società e del popolo, allora non occorre cambiare le premesse? Non saranno necessari accanto agli stimoli morali anche quelli materiali? Dunque la ricomparsa del denaro, del suo valore e dei prodotti e dei simboli di una scala sociale?
La timida risposta fu sì, anche se spesso il

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moralismo di fondo di un gruppo dirigente catto comunista e guevarista faceva tornare indietro questa ammissione. Cominciarono ad essere introdotti gli stimoli materiali. Spesso per noi ridicoli, ma che acquistavano effetti dirompenti in un Paese che in pochi anni e sull’onda di un entusiasmo straordinario aveva cancellato un passato di diseguaglianze profonde.
La rete di scambio solidale cominciò a diventare interessata, seppure per legami non immediatamente economici. A Cuba l’amico è il “socio”. Cominciò a girare la battuta che non c’era il socialismo, ma il sociolismo. Che valeva per piccole cose, una serata al ristorante, una bottiglia di rum, una gallina o meglio ancora un maiale da mangiare in una grande festa, l’immancabile birra, la fria, razionata, ma onnipresente in ricorrenze, cerimonie o anche solo pasti.
Ma voi lo sapete bene. La misura delle cose dipende dal confronto. Racconto spesso che quando a volte accompagnavo mia moglie al lavoro all’ospedale, ad un certo punto del tragitto attraversavo un grande incrocio. Quando in fila al semaforo c’erano un camion e due auto pensavo dentro di me “maledizione, questa mattina c’è coda”. Ma lo pensavo davvero. Oggi, nelle stesse identiche condizioni direi “Per fortuna questa mattina non c’è coda”,
Così i cerchi in lega su una Lada che qui oggi l’ultimo ragazzotto rifiuterebbe con sdegno, all’Avana di quegli anni, sull’auto del sindaco della città, erano un segno di differenza per me irritante.
L’esperienza del Paese con i soldi superflui è finita. Gli stimoli morali, da soli non sono riusciti nel miracolo di far diventare il popolo cubano un popolo di uomini nuovi. Certo, qualcosa è rimasto nel profondo. Si racconta che alcuni di coloro che erano scappati da Cuba in odio al comunismo o soltanto per cercare negli Stati Uniti una vita più agevole, andavano dal medico e chiedevano di essere visitati e curati e rimanevano senza parole quando gli chiedevano l’assicurazione o i soldi.
E ancora adesso che pure i dollari non sono più odiati, ma desiderati, sopravvive una parte di volontarismo e di aspirazione all’eroismo del disinteresse che è stato il fascino romantico di Cuba. Ma per l’appunto, oggi è un altro mondo.

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