Gunter Grass

Written by Franco Romanò. Posted in Articoli

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L’autore de Il tamburo di latta non è al top delle mie preferenze letterarie, ma ho sempre ammirato la sua generosità debordante, la franchezza delle sue prese di posizione anche rispetto alle questioni più scomode. Ne cito due perché mi sembrano decisive sia per quello che esprimono in sé sia per quello che gli hanno tirato addosso.
Prima di tutto il carteggio fra di lui e il Nobel giapponese della letteratura Oe, dove entrambi si battevano contro la rimozione del passato di entrambi i paesi, cui Grass aggiungeva un invito ai governi del suo paese a rendere omaggio ai 20.000 soldati tedeschi fucilati perchè antinazisti. In secondo luogo le nette posizioni a favore del popolo palestinese, che gli valsero naturalmente l’accusa di antisemitismo da parte dell’establishment paranoide israeliano.
Grass è sempre stato un po’ ruvido nei suoi atteggiamenti, qualcosa in lui mi ricorda un altro grande maledetto tedesco del dopoguerra: il regista cinematografico Rainer Werner Fassbinder.
L’opera considerata maggiore è una saga famigliare nella quale Grass voleva rappresentare un secolo di storia sospesa sui confini più tragici del centro Europa e cioè quella vasta area di mezzo che è stata a volte polacca, a volte tedesca, a volte persino russa (fa una certa impressione, per esempio, ricordare che l’attuale Kaliningrad è la Könisberg dove nacque Kant). C’è molto di autobiografico ne il Tamburo di latta, considerando il fatto che Grass è nato a Danzica e aveva una nonna di origini polacche. Ciò che ha colpito i critici e i lettori nel bene e nel male, è la lingua debordante in cui il romanzo è scritto, una storia nella quale nessuno riesce a mettere ordine. Per molti aspetti ricorda anche un certo Falkner, (quello de L’urlo e il furore), ma la rappresentazione del caos e dell’impossibilità di risolverlo si offre sempre al rischio di una resa letteraria che a sua volta appare magmatica e incompiuta.
Un suo libro, tuttavia, mi ha colpito più degli altri, un testo poco letto sebbene fosse uscito in un momento cruciale della storia tedesca: la caduta del muro di Berlino, che Grass accolse con moderato ottimismo, ma auspicando sempre che le Germanie continuassero a essere due. Anche in quel caso, la polemica fu aspra, Grass non vide di buon occhio la riunificazione tedesca e continuò a combattere fino a pochi giorni prima della morte l’ipotesi di una nuova guerra fredda con la Russia e a criticare aspramente il governo tedesco per la sua politica nei confronti della Grecia.

Il libro si intitola Il richiamo dell’ululone. Il timbro e la natura stessa della vicenda sono di per sé contundenti, ma più di altre volte, inclini al grottesco. Questo romanzo insieme ad altri due (Cani neri di Ian McEwan e Il giorno dei morti di Cees Nooteboom) costituì un caso letterario perchè scritto come gli altri due a poco tempo dagli eventi.
La trama de Il richiamo dell’ululone basta da sola a indicare gli aspetti amaramente grotteschi e corrosivi del romanzo.

Un vedovo tedesco e una vedova polacca s’incontrano in un cimitero polacco il 2 novembre 1989: è il giorno dei morti, ma siamo anche a sette giorni dalla caduta del Muro. Si trovano al cimitero per ragioni diverse. La vedova è in visita alla tomba del marito, mentre lui è uno studioso di storia dell’arte, esperto in lapidi e iscrizioni mortuarie. Fra i due nasce una storia d’amore, che, visto il luogo del primo incontro, si tinge subito di grottesco. Il bello però deve ancora venire. La coppia è animata da uno spirito caritatevole e anche conciliatorio. Germania e Polonia incarnano la tragedia europea e i due si gettano in un’impresa che vuole essere umanitaria: riportare i morti a casa loro, così da restituire – almeno in senso simbolico – la terra ai profughi scacciati da una parte e dell’altra di quei confini perennemente mobili e insanguinati. Il progetto viene accolto con scetticismo, sembra poco più che una bizzarria, con ostacoli burocratici assai difficili da superare, ma improvvisamente lo scenario cambia. La caduta del muro offre aperture prima impensabili, i confini diventano di colpo permeabili, dell’idea s’impadroniscono altri e il progetto diventa un vero e proprio business, i cimiteri della memoria si trasformano in resorts e quant’altro. Il progetto sfugge così dalle mani dei due che nel frattempo si sono sposati. Vista la piega che prendono gli eventi, decidono di ritirarsi dall’impresa e partono per un viaggio nel sud d’Europa.
A venti anni dalla caduta del Muro qualcosa di simile accadde davvero a Berlino:. Un nuovo muro di gesso, costruito nell’area intorno alla porta di Brandeburgo, fu fatto cadere come un domino da vecchi e nuovi leader europei: i singoli pezzi di questo secondo muro erano sponsorizzati da multinazionali, aziende, banche e quant’altro e dipinti da artisti più o meno famosi.

Grass appartiene a quella specie di intellettuali che anche nelle loro esagerazioni sanno essere coscienze critiche, persino nell’errore di dichiarare in ritardo che la sua militanza di quindicenne nelle SS fu volontaria; se non altro per il modo paradossale con cui è stata presentata: volevo come tutti i giovani voltare le spalle ai genitori e andarmene di casa. Nelle cause importanti però, la sua voce non è mai venuta meno, come nel suo ultimo scritto dal titolo significativo Noi tedeschi siamo corrotti e indebitati.
La mancanza di responsabilità nei confronti della nostra storia italica, invece, è una costante e non ha nulla a che fare con la rimozione, che è un processo inconscio e non cosciente, come invece è nel nostro caso. Una delle difficoltà nel fare i conti con il Fascismo, per esempio, è che sembra che non lo sia stato nessuno, mentre al contrario se si vanno a leggere le biografie di italiani illustri, pochissimi sfuggono a quelle origini e alle loro complicità con il regime, che hanno sei mai cercato di minimizzare oppure addirittura occultare. Fino al 43′ si contano in poche migliaia gli oppositori veri, quasi tutti comunisti e socialisti: le cose cambiarono con la guerra, ma se Mussolini non avesso commesso quell’errore avrebbe governato fino alla vigilia degli anni ’60. La Resistenza fu un fatto straordinario, ma la demolizione della sua memoria cominciò subito, insieme al riciclaggio di questori e funzionari appartenenti agli apparati di sicurezza del regime: basti pensare che il famigerato Guida, responsabile della questura milanese il giorno della strage di Piazza Fontana, era il direttore del carcere fascista di Ventotene, l’isola dove erano mandati al soggiorno speciale, o rinchiusi, gli antifascisti. Gli anni intorno al 1968 diedero nuovo impulso al rilancio dell’antifascismo, ma le istituzioni hanno sempre avuto un atteggiamento ambivalente quando non ambiguo, fino alle dichiarazioni a dir poco irresponsabili di personaggi come Luciano Violante, il primo che, da una cultura formalmente di sinistra, parlò dei ragazzi di Salò, come se se la Repubblica Sociale Italiana fosse un gruppo di boy scount e non un regime fra i più criminali dell’intera Europa. Un paese dove i fascisti li mandiamo addirittura al governo, dove si lasciano al loro posto i responsabili dei crimini commessi a Genova nel 2001, non ha titoli per giudicare alcunchè. E gli intellettuali? Grass appartiene a una specie che da noi, se guardiamo a quelli che popolano il circo equestre mediatico, si vede sempre meno: un Pasolini, per esempio, ma ci si accontenterebbe anche di meno. Esiste una cultura di resistenza diffusa che in rete e nell’editoria cartacea militante si manifesta a volte in scritti pregevoli, ma che raramente arriva sulla stampa e tanto meno in televisione, con qualche eccezione nelle trasmissioni serali di Rai storia e su quotidiani come il Manifesto e poco più. La differenza con la Germania è che uno come Grass, nonostante fosse criticato anche aspramente (ma lo stesso si può dire di Beck, di Enszerberger e, prima di loro, di Christa Wolf), non sono stati confinati in un ruolo marginale da processi di sottile censura e a volte di autocensura come avviene da noi e anche questo ha a che fare con la memoria storica. Anche in Germania vi è stato un periodo di silenzio sui crimini tedeschi, che coincise con il potere di Adenauer e forse lo si può anche capire: era difficile superare immediatamente un trauma così forte. Dalla metà degli anni ’60 in poi, però, la memoria del passato tedesco è stata affrontata e non solo dai movimenti ma anche dalle istituzioni. Il gesto di Willy Brandt che va a inginocchiarsi al cimitero di Dachau era simbolicamente il segno di una Germania che assumeva su di sé come nazione il peso storico del nazismo. Da quel momento in poi non ci sono stati tentennamenti: un ex fascista come Fini in Germania, non avrebbe potuto diventare ministro e quando qualcuno che era riuscito a far scomparire le tracce del proprio passato nazista è stato scoperto in posizioni di potere, è stato immediatamente rimosso; altre organizzazioni che sono state tollerate come la rete Gehlen, lo furono perchè i vincitori americani lo imposero durante il periodo della guerra fredda. Non bisogna confondere il revisionismo di uno storico come Nolte, per esempio, con le complicità dello stato italiano e le sue connivenze con la destra fascista più eversiva. Non condivido nulla delle tesi di Nolte, ma gli storici hanno il diritto di continuare la loro ricerca in tutte le direzioni: diverso è avere una polizia dove la Costituzione non è mai entrata nel percorso formativo degli agenti.
Forse anche per questa ragione intellettuali scomodi come Grass hanno potuto scrivere e parlare con questa chiarezza sulla questione palestinese, per esempio. Avendo fatto i conti con il loro passato, gli intellettuali tedeschi sono più liberi di esprimersi su questo problema, dove invece il servilismo di quelli italiani è più vistoso. Eppure, il massacro quotidiano del popolo palestinese, una politica quanto meno di pulizia etnica, oppure il disprezzo di certa stampa nei confronti dei migranti provenienti dai paesi islamici, è oggettivamente antisemita. Ma forse, in quest’ultimo caso, gioca pure l’ignoranza: chissà se se lo ricordano certi nostri intellettuali che anche gli arabi sono semiti.

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Franco Romanò

Scrittore, critico letterario e poeta, è vicepresidente della Società di Psicoanalisi Critica. Ha pubblicato romanzi, poesie e saggi critici su varie riviste specializzate. Attualmente è condirettore della rivista “Il cavallo di Cavalcanti”.
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