Cambiamenti psichici e modificazioni identitarie all’epoca del coronavirus
Quando ho iniziato a pensare di poter scrivere qualcosa sulla pandemia che ci sta ancora
affliggendo e travolgendo, mi è venuta in mente la nota considerazione di Freud, spesso citata e
anche un po’ abusata, sulla capacità di amare e lavorare, con riferimento alle due importanti
funzioni dell’Io: quella di stabilire/intrattenere relazioni affettive, e quella di svolgere la propria
attività lavorativa, entrambe fondamentali per la nostra sopravvivenza fisica e psichica. Tali
capacità (affettiva e lavorativa) sono state messe a dura prova nel periodo di lockdown che ha
costretto molte persone, per un periodo piuttosto lungo, ad interrompere relazioni affettive
significative, rapporti sociali e lavorativi. Per alcuni si è trattato, invece, di vere e proprie perdite:
occupazionali, sentimentali (es. separazioni), lutti. Tutte esperienze di natura traumatica
caratterizzate da imprevedibilità, senso di estraneità e difficoltà di elaborazione.
Nello scritto “Il disagio della civiltà” del 1939 Freud scriveva: “Normalmente nulla è per noi più
sicuro del senso di noi stessi, del nostro proprio Io” (p.559, Vol. 10, Opere, Boringhieri). In questo
lavoro Freud parlava, tra le altre cose, di un sentimento religioso basato su un bisogno che ha
origine da un senso di impotenza infantile e da una nostalgia paterna; precisava che tale necessità si
incrementa nei momenti di angoscia “di fronte allo strapotere del fato”. In altre parole, quando l’Io
si sente minacciato dal mondo esterno, si difende attraverso un meccanismo che lo porta a
desiderare un padre protettivo.
Sto pensando alla figura del nostro Presidente della Repubblica che, nelle sue apparizioni, ha
cercato di rassicurare la popolazione, confortando e incoraggiando mentre, al contempo, ha
ammonito e ribadito le norme per un adeguato comportamento basato sul rispetto delle regole e
delle buone prassi idonee (lo speriamo tutti) al contenimento della pandemia. Come se due poteri si
fronteggiassero: la potenza del virus e la potenza del padre che il popolo invoca. Invece del Dio
della religione cattolica, del Salvatore della nostra tradizione cristiana, il padre della Repubblica con
il suo carisma, la sua autorevolezza e la sua saggezza.
Seguendo il pensiero di Freud, questo bisogno infantile si risveglia ancor più nei momenti di
pericolo, quando l’umanità si sente minacciata da forze oscure che non comprende e non conosce. Il
nemico è all’esterno e bisogna stare in guardia, proteggersi, diffidare. Tale atteggiamento può
assumere la forma di una paranoia collettiva che limita o addirittura annienta la capacità di pensare,
di considerare la realtà in modo obiettivo, di conservare un proprio punto di vista critico. Tutti noi
abbiamo vissuto questo clima di controllo sociale reciproco dove ognuno guardava l’altro con
sospetto, mentre qualcuno, addirittura, si ergeva a tutore della legge fino a giungere a casi assurdi in
cui il vicino di casa chiedeva l’intervento delle forze dell’ordine perché una mamma stava giocando
a palla con la figlioletta nel cortile sotto casa. Tutto ciò che è accaduto ed abbiamo vissuto è andato
a minare la nostra stessa identità personale, ci ha confuso facendoci sentire inermi. Ha messo in
crisi e coinvolto il nostro senso di appartenenza a gruppi, limitato e condizionato la nostra identità
sociale e il riferimento alla stessa comunità.
La paranoia individuale, come ricorda Luigi Zoja, (p. 23, in”Paranoia”, Bollati Boringhieri, 2011)
nel suo significato etimologico, si riferisce ad una mente che “oltrepassa” il campo abituale del
pensiero razionale. Quella collettiva, invece, ha a che fare con un potenziale presente in ciascun
individuo, come ci ha insegnato Melanie Klein, ma aumenta di fronte a “perturbazioni tempestose
della vita collettiva” (Freud, Op.Cit.). Penso che l’esperienza traumatica della pandemia, seppure
amplificata da mass media ed istituzioni, possa aver rappresentato un evento perturbante capace di
scatenare una tempesta emotiva nell’individuo e nei gruppi. Riprendendo ancora una volta le parole
di Zoja, l’ambiente ha avuto, in questo drammatico frangente, il potere di “accendere” (p.27, Op.
Cit.) il potenziale paranoico dell’individuo e, conseguentemente, dell’intera collettività.
Un altro meccanismo difensivo che si è messo in atto in questo difficile periodo è stato quello del
ritiro sociale. Molte persone si sono chiuse non solo in casa, ma anche in propri rifugi della mente
cercando un posto sicuro dove poter stare, un angolo riservato/privato dove sostare, riposare,
ripararsi. Alcuni, ancor oggi, si sentono più sicuri e protetti restando a casa, limitando i propri
spostamenti e contatti sociali. Il senso di protezione viene tuttora ricercato in abitudini e rituali che
in questi mesi si sono potuti sperimentare, consolidare e quindi ormai radicati. Si possono osservare
persone ( e, almeno in parte, questo vale per tutti noi) che hanno modificato il proprio stile di vita a
tal punto da avere difficoltà ad un ritorno alla cosiddetta normalità. Ciò per varie ragioni che non
hanno solo a che fare con paranoia e patofobia, ma con uno stato mentale più profondo e
inconsapevole che attiene al ripiegamento su se stessi, al bisogno di conservare uno stato di
integrità individuale.
Un altro vertice delle mie riflessioni deriva, invece, dall’esperienza professionale come
psicoterapeuta con bambini ed adolescenti. Anche se, sicuramente, è ancora presto per giungere a
considerazioni più approfondite, ho potuto notare, soprattutto in bambini con difficoltà di
apprendimento e/o di comportamento (espresse in ambito scolastico), che la chiusura delle scuole e
la possibilità di sperimentare nuove modalità di relazione con compagni e insegnanti “a distanza” ha
permesso loro, forse in modo un po’ paradossale, di avere migliori risultati, con valorizzazione di
attitudini al lavoro e all’impegno precedentemente sconosciute o non riconosciute. Ho riscontrato,
almeno in alcuni casi, un aumento dell’autostima e della sicurezza relativamente alle proprie
capacità di concentrazione, attenzione e, anche nei genitori, un riconoscimento di questi positivi e
inaspettati cambiamenti. Sicuramente, in alcune situazioni, la maggiore presenza a casa dei
familiari, ha favorito questo processo, soprattutto dove il clima affettivo e le relazioni erano più
favorevoli. Madri e padri, in certi casi, sembrano avere approfittato di questo periodo per recuperare
un rapporto di maggiore vicinanza con i figli, soprattutto coloro che erano sempre stati molto
coinvolti dal proprio lavoro fuori casa.
Penso sia importante osservare questi aspetti contrastanti che possono apparire anche contraddittori
avendo avuto un impatto talvolta addirittura positivo sugli individui o sulle dinamiche familiari.
Tutto questo sembra essere avvenuto nonostante i pesanti condizionamenti vissuti da tutti noi e, in
modo ancor più evidente, proprio dai bambini in questo difficilissimo periodo.
A questo proposito, mi sento in accordo con quanto segnalato da Ammanniti nel suo ultimo lavoro
(“E poi i bambini. I nostri figli al tempo del coronavirus”, Solforino, 2020) quando parla di bambini
reclusi e ingiustamente privati di una anche minima libertà di uscite e movimento, vittime di un
atteggiamento di rimozione e negazione collettiva rispetto ai loro bisogni fondamentali. Alcune
ricerche citate nel testo hanno evidenziato l’insorgenza o l’aumento di disturbi emotivi in età
infantile nel periodo di lockdown. Io stesso ho riscontrato, in alcune situazioni, aumento di
irritabilità, opposizione nei bambini e difficoltà da parte dei genitori nel contenimento educativo.
Nella mia esperienza, tuttavia, si trattava di casi problematici dove erano già presenti indicatori di
rischio.
Con la ripresa della possibilità di uscire e di potersi finalmente allontanare dalle mura domestiche, i
bambini hanno finalmente abbandonato videogiochi, play station e telefonini per dedicarsi ad
attività di gioco all’aria aperta con un nuovo anelito di libertà ed assaporando la novità della
situazione ritrovata ma, forse, mai prima pienamente riconosciuta come così preziosa. Diversi
piccoli pazienti, alla ripresa dei nostri incontri, mi hanno raccontato di cosa finalmente potevano di
nuovo fare: andare ai giardini, in bicicletta, nuotare o fare sport, mostrando scarso rimpianto per le
precedenti attività sedentarie delle quali si erano saturati e ormai annoiati.
La difficoltà incontrata con i più piccoli nel riprendere le sedute “in presenza”, è stata quella di
mantenere l’uso della mascherina. Per loro, infatti, è estremamente difficile giocare, disegnare ed
entrare in relazione così schermati. Una strategia che ho utilizzato è stata quella di salutarci a volto
scoperto all’inizio e alla fine dell’ora; mentre con quelli più grandi ho notato una maggiore capacità
di adattamento alle nuove regole sicuramente rinforzata da un atteggiamento educativo dei genitori
conforme a quanto indicato dalle normative vigenti.
Gli adolescenti, nella maggior parte dei casi, sembrano aver accettato le restrizioni legate alla
pandemia mostrando discrete capacità di adattamento, forse a causa di un atteggiamento più
conformistico legato al comportamento dei loro coetanei in quel momento. Soltanto i più
trasgressivi, con problemi di comportamento, controllo degli impulsi o dipendenza, si sono
mostrati incuranti del pericolo mettendo in atto condotte a rischio. In altri, invece, la chiusura delle
scuole e la permanenza a casa ha favorito o rinforzato comportamenti di tipo fobico con insorgenza
di attacchi di ansia e panico emersi alla fine del lockdown. Una ragazza di 16 anni, che già avevo
seguito con una lunga psicoterapia quando era bambina, mi ha chiesto di rivederci perché non si
sentiva in grado di uscire da sola e, alla prima seduta di consultazione, ha portato il timore di essere
diventata pazza. Anche lei aveva comunque alle spalle pregressi vissuti di perdita (morte del padre)
e angosce di separazione dalla madre.
I minori più sofferenti sono stati quelli che si trovavano inseriti in comunità educative residenziali
per motivi di tutela o in strutture terapeutiche per problematiche sanitarie. Sono stati gli ultimi a
poter uscire e a ritrovare una dimensione di normalità, un minimo senso di libertà di azione,
movimento e relazione con familiari e coetanei per loro significativi. Ciò è accaduto per ritardi nelle
disposizioni regionali che non avevano preso in considerazione questo tipo di casi. Alcuni
adolescenti si sono sentiti realmente reclusi, abbandonati e dimenticati. Un ragazzo di 18 anni che
ho a lungo seguito, anche “a distanza”, con sedute di psicoterapia in videochiamata, mi raccontava
di quanto gli mancassero gli amici e di come si sentisse prigioniero nel momento in cui tutti
avevano ripreso ad uscire e a frequentarsi liberamente mentre lui, inserito in una comunità
terapeutica, poteva solo “vederli su Facebook o su Instagram”. Una ragazzina di 14 anni, inserita in
un istituto religioso, durante una consultazione psicoterapeutica, ha minacciato il suicidio perché
non poteva incontrare la mamma che non vedeva da mesi.
Per quanto riguarda le coppie separate in modo conflittuale, inviate al Servizio Sanitario con
provvedimento del Tribunale, non ho potuto osservare cambiamenti positivi né miglioramenti. Si
tratta sempre di separazioni traumatiche, mai elaborate, dove la litigiosità tra genitori, in alcuni casi,
si è addirittura rafforzata. Questo è accaduto perchè entrambi i genitori si sono sentiti deprivati di
qualcosa e rivendicavano diritti e bisogni a causa delle maggiori difficoltà nella gestione dei figli.
Le modalità di spostamento e trasporto più complicate, i cambiamenti nella propria attività
lavorativa, hanno reso più complicato il regime di alternanza tra genitori nella custodia dei figli.
Tutto questo ha aumentato pretese insensate, irrazionalità ed incapacità di mediazione negli adulti a
scapito di bambini già da tempo esposti ad un clima emotivo altamente patogeno.
Un’ultima riflessione riguarda il lavoro di psicoterapia “in remoto”, come ora si usa dire.
A parte alcuni pazienti che lo hanno rifiutato e i bambini con i quali la seduta online è stata di
difficile realizzazione, nella maggior parte dei casi, soprattutto con adulti e adolescenti, le sedute
telefoniche, con videochiamata o su Skype, hanno consentito di mantenere vivo un legame, di
offrire un sostegno emotivo in una situazione ambientale particolarmente difficile, di far sentire una
presenza attiva e partecipe in un momento di particolare vuoto affettivo e sociale. Credo, inoltre,
che molti pazienti possano aver sperimentato in modo molto concreto e reale la possibilità di essere
raggiunti dal proprio terapeuta.
Quanto di questi mutamenti perdurerà o diventerà ancor più profondo lo vedremo nella società e lo
seguiremo soprattutto in ambito clinico attraverso il lavoro con i nostri pazienti.
La Società di Psicoanalisi critica promuove lo studio, la ricerca e la formazione nel campo della psicoanalisi di Freud e di coloro che dopo di lui ne hanno continuato l’opera.
Vuole valorizzare gli aspetti teorici e clinici che fanno della psicoanalisi una scienza che indaga le forze psichiche operanti nell’uomo, in quanto singolo individuo e negli uomini, nelle loro aggregazioni sociali.
“Tutti i numeri dei Quaderni di Psicoanalisi Critica sono reperibili su ordinazione nelle librerie e disponibili presso la Libreria Franco Angeli Bookshop – Viale dell’Innovazione,11 – 20126 Milano.
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- Secondo incontro Seminario “LA CLINICA DEL COCOONING: IL FUNZIONAMENTO DELL’AUTOESCLUSIONE”
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