di Adriano Voltolin
Quando Pasolini venne ucciso, il 2 novembre 1975, mi trovavo ad un convegno di psicologia organizzato a Bologna da Enzo Spaltro: appena arrivò la notizia dell’assassinio, accanto al cordoglio, molti manifestarono l’idea che ad ucciderlo fossero stati i fascisti. Non era così. Era molto peggio a giudicare dalle varie ipotesi fatte e per le quali preferisco rinviare al lavoro di Aldo Giannuli pubblicato in questa stessa occasione.
In quel novembre del 1975 l’impressione lasciata dagli articoli di Pasolini sul Corriere della Sera nei tre anni precedenti, era molto forte sia per l’ottica che proponevano nel guardare alla società italiana ed ai suo mutamenti, sia per l’eco di polemiche che suscitavano.
Il punto di osservazione di Pasolini faceva perno sul disvelamento di ciò che era sotto gli occhi di tutti: un’operazione che in termini psicoanalitici consiste nella messa a fuoco del meccanismo della rimozione, la Verdrängung freudiana. La rimozione è uno strumento attraverso il quale l’inconscio si protegge dal turbamento che verrebbe prodotto dalla pulsione se, appunto, non vi fosse una protezione contro tale spinta. In termini clinici la rimozione è una difesa diversa da altre assai più potenti, ma anche molto più dannose in quanto danneggiano l’Io, il senso di identità. Freud distingue la nevrosi dalla psicosi anche attraverso il tipo di difese impiegate: lo psicotico cambia la realtà, il nevrotico la deforma per poterla sopportare. La rimozione allontana un contenuto disturbante dalla coscienza consentendo così alla medesima di non prendere atto di qualche cosa che la turberebbe più o meno profondamente.